lunedì 9 novembre 2009

Reportage: Oil for China


Da D di Repubblica di ieri, una digressione su un argomento di cui in precedenza non mi ero mai occupato.

Quando nel febbraio del 2009 oltre duemila persone provenienti da cinquantacinque paesi si sono riunite a Houston per partecipare al Forum Globale sulle Risorse Energetiche, la delegazione cinese contava per meno di un centesimo dei partecipanti, eppure gli organizzatori hanno ugualmente ritenuto opportuno garantire un servizio completo di traduzione dall’inglese al cinese per tutti gli eventi in programma. In quei giorni, mentre gli incontri europei e russi sul gas erano semi-deserti, le colazioni di lavoro cinesi erano sempre affollatissime, con tanto di persone in piedi in fondo alla sala. Stando a quanto Chen Weidong, vicepresidente esecutivo della China Oilfield Services Limited, un’importante compagnia di servizi petroliferi cinese, ha raccontato ai giornalisti della rivista finanziaria Caijing: “In quasi tutti gli incontri cui ho preso parte veniva citata la Cina, quasi come se non nominarla significasse non arrivare al nocciolo della questione”.


Che la Cina sia un attore centrale nel grande gioco internazionale per il controllo delle risorse energetiche è ormai un dato di fatto. Sin da quando, nei primi anni Ottanta, sono state avviate le politiche di riforma ed apertura, la sete cinese di energia è aumentata sempre di più, determinando l’urgenza con cui il governo cinese ha iniziato a guardare all’estero per garantirsi nuove fonti di approvvigionamento di petrolio e gas naturale. Se si vuole individuare un punto di svolta in questo processo storico, questo è sicuramente il 1993, anno in cui per la prima volta le importazioni cinesi di petrolio hanno superato le esportazioni, un cambiamento che ha modificato radicalmente il panorama geopolitico globale. Di fatto, se appena quindici anni fa la Cina era un paese esportatore di petrolio, dal 2006 essa è diventata il terzo paese importatore di petrolio, alle spalle di Stati Uniti e Giappone.


La politica cinese per assicurarsi la propria sicurezza energetica si è immediatamente dimostrata estremamente aggressiva, con le compagnie petrolifere cinesi che non solo acquistavano il petrolio sul mercato, ma via via cercavano di acquisire intere riserve. Nel nuovo contesto mondiale, la necessità di garantirsi rifornimenti costanti ha spinto la Cina non solo ad avviare un’intensa opera diplomatica nei confronti di regimi discutibili come i governi al potere in Sudan e l’Iran, ma anche a dimostrare un rinnovato interesse nei confronti delle repubbliche ex-sovietiche dell’Asia centrale. Nel 1996 i leader di questi paesi si sono riuniti sotto l’egida cinese per creare la cosiddetta “Organizzazione Cooperativa di Shanghai”, un’organizzazione finalizzata al rafforzamento della sicurezza e della stabilità nell’area e al consolidamento dei legami economici tra i membri, in particolare in campo energetico. Uno dei primi frutti di questa cooperazione è un oleodotto che andrà dal Kazakistan alla Cina, collegando il mar Caspio all’inquieta provincia di frontiera dello Xinjiang.


Il nuovo oleodotto, una volta completato, dovrebbe garantire alla Cina la possibilità di importare ogni giorno quattrocentomila barili di petrolio in più. Più petrolio tuttavia comporta più emissioni di anidride carbonica e una conseguente accelerazione del riscaldamento climatico. Ma Jun, un noto ambientalista cinese che la rivista Time nel 2006 ha inserito nella sua lista delle cento persone più influenti al mondo, così commenta: “Che si tratti della sua estrazione, del suo trasporto e della sua raffinazione, il petrolio produce moltissime emissioni, cosa che influenza in più di un modo l’ambiente, le acque e il clima”.


Il governo cinese ha già non poche ragioni per guardare con preoccupazione alle prospettive del cambiamento climatico. Negli ultimi due anni una lunga serie di catastrofi naturali hanno piagato il paese, dalle tempeste di neve che hanno paralizzato la Cina meridionale nel febbraio del 2008, ai tifoni che con inusitata frequenza e violenza nei mesi autunnali hanno colpito le coste centro meridionali. Tutto ciò ha avuto un costo enorme, sia in termine di vite umane che di denaro, basti pensare che le sole tempeste di neve hanno causato ben 129 vittime e perdite complessive per oltre venti miliardi di dollari. Se poi si considera come la tradizione cinese guardi alle catastrofi naturali alla stregua di un segnale celeste che indica l’imminente fine di una dinastia, si può comprendere come per le autorità di Pechino queste tragedie non siano solamente un problema umano e sociale, ma anche politico.


I cittadini cinesi sono inquieti e già da qualche tempo stanno richiedendo ai propri governanti un maggiore impegno sulle questioni ambientali. Un’indagine condotta nel 2007 su un campione di un migliaio di persone mostra come all’epoca l’88% dei cinesi fosse preoccupato per il cambiamento climatico e il 97% pensasse che il governo non stesse facendo abbastanza per affrontare il problema. Nello stesso anno, la natura sensibile di questo argomento ha trovato riscontro nella reazione indignata del “popolo della rete” cinese nei confronti di una nota marca d’abiti che aveva adottato come sfortunato slogan per una pubblicità on-line: “Non posso occuparmi del cambiamento climatico, ma almeno sono bello”. Ciononostante, i segnali riguardanti la coscienza ambientale dei giovani cinesi rimangono contrastanti. Emblematici sono i risultati di un’altra ricerca, condotta nel 2008 su un campione di 2500 cinesi con un’età media di trent’anni: in quell’occasione l’80% degli intervistati avrebbe dichiarato di essere preoccupato per il cambiamento climatico, ma allo stesso tempo l’85% sarebbe stato felice se avesse avuto la possibilità di acquistare un’automobile.


Al di là delle contraddizioni in seno alla nascente opinione pubblica cinese, fin troppo spesso le esigenze di ridurre le emissioni di CO2 si scontrano con l’imperativo della crescita economica. Ben pochi in Cina sono disposti ad accollarsi costi potenzialmente enormi per risolvere un problema che il sentire comune ritiene sia stato causato dai paesi occidentali in oltre un secolo d’industrializzazione selvaggia. Tanto più che gli Stati Uniti non hanno mai sottoscritto gli accordi di Kyoto. In “La Cina non è contenta”, un volume dai toni accesamente nazionalistici che è diventato un bestseller tra i giovani cinesi lo scorso anno, uno degli autori si chiede: “Che diritto hanno i paesi sviluppati di non permettere ai cinesi di utilizzare le risorse energetiche allo stesso modo in cui le hanno utilizzate loro? Quello che dovrebbero fare è ridurre il proprio consumo di energia”.


Alcuni ritengono che un simile atteggiamento di sfida, che negli ultimi anni ha trovato ampio riscontro nella posizione del governo cinese, sia sufficiente per affermare che le autorità di Pechino nutrono poco interesse nei confronti del riscaldamento climatico e degli accordi di Kyoto. Arturo Lorenzoni, docente di Economia delle Fonti di Energia dell’Università di Padova, non la pensa così: “Se è vero che la Cina assume degli atteggiamenti discutibili a livello internazionale nell’ambito della diplomazia del petrolio, il governo cinese si è posto degli obiettivi assolutamente in linea con i patti, ad esempio nel campo delle energie rinnovabili”.


Le energie rinnovabili, così come il nucleare, giocano un ruolo fondamentale nella strategia di Pechino per la riduzione delle emissioni di CO2. Come ha ricordato Hu Jintao nel suo recente intervento all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, entro il 2020 la Cina tenterà di portare al 15% (contro il 10% del 2007) la percentuale dei combustibili non fossili nei consumi di energia primaria. Si tratta di una prospettiva realistica? Secondo Alessandro Costa, specialista in tematiche energetiche e ambientali che lavora nell’Ufficio di cooperazione del Ministero dell’Ambiente italiano a Pechino, è un obiettivo perfettamente realizzabile: “La Cina sta diventando leader in termini di produzione delle varie tecnologie e quindi è fattibile. L’incognita, semmai, è se all'indicazione chiara da parte della politica farà seguito un costante sostegno alla sua implementazione, cosa che dipenderà principalmente dalle reali intenzioni dei vertici gerarchici”.


Al di là degli slogan e dei buoni propositi, non si può dimenticare che la Cina rimane uno dei luoghi più inquinati al mondo, un paese in cui ogni anno centinaia di migliaia di cittadini muoiono per le conseguenze dell’inquinamento e in cui si stima che oltre cinquecento milioni di persone non abbiano accesso ad acqua pulita. Quando le problematiche da affrontare sono così impellenti, Kyoto, Copenaghen e le prospettive di un cambiamento climatico che si misurerà in decenni rimangono lontane dal sentire della gente comune. Questo però non preclude il cambiamento. Secondo Ma Jun, “il modello di sviluppo cinese di per sé non è sostenibile e va comunque cambiato, indipendentemente dai patti internazionali che il governo decide o meno di sottoscrivere”. Questo ambientalista di vecchia data ci tiene poi a ricordare un dato di fatto che fin troppo spesso viene tralasciato quando si discute della sete energetica cinese: “Non è un caso se il nostro paese viene definito la ‘fabbrica del mondo’: se ha bisogno di moltissimo petrolio, non è per solo se stesso, ma anche per l’intero pianeta”. Un pianeta che rischia la catastrofe, mentre i suoi leader sono troppo impegnati a scaricarsi la responsabilità a vicenda.