Nei giorni scorsi ha fatto scalpore la decisione delle autorità cinesi di trasformare il “Nido”, l’avveniristico stadio simbolo delle scorse Olimpiadi, in un centro ricreativo e commerciale. Francesco Sisci su La Stampa ha riportato come i semplici costi di mantenimento della struttura, a suo tempo costata ben 450 milioni di dollari, si aggirino attorno ai 60 milioni di yuan all’anno. La scelta di aprire lo stadio ai turisti a partire dal primo ottobre dello scorso anno ha dato i suoi frutti, ma l’arrivo di 80.000 persone da ogni parte del paese è stato appena sufficiente a coprire una minima parte delle spese di mantenimento. La ristrutturazione del Nido, così come quella del Cubo d’Acqua, sembrano di fatto dar ragione a coloro che sin dall’inizio si sono interrogati sull’opportunità di costruire edifici così grandi ed onerosi da utilizzare nel semplice arco di tempo di un’Olimpiade.
Eppure, se la notizia del piano di riutilizzo dello stadio di Pechino ha fatto il giro dei giornali di tutto il mondo, quasi a dimostrare l’incapacità del governo cinese di fare piani a lungo termine, vi sono anche altri retroscena della gestione del periodo post-olimpico che fanno riflettere. Sull’ultimo numero del Phoenix Weekly, un quindicinale basato a Hong Kong, la giornalista Wang Qian ha approfondito la questione del reimpiego dei dipendenti del Comitato Organizzatore delle Olimpiadi di Pechino (di seguito citato con la sigla inglese di BOCOG). In sette anni di attività, il BOCOG è arrivato ad impiegare più 4.000 persone, mille delle quali assunte direttamente come personale a tempo pieno a libro paga, tremila come “prestito temporaneo” da università ed altri dipartimenti governativi. Mentre queste ultime una volta concluse le Olimpiadi hanno fatto ritorno senza problemi alle proprie unità di lavoro, i dipendenti assunti direttamente dal BOCOG ora si trovano ad affrontare la minaccia della disoccupazione.
Nell’indagine del Phoenix Weekly si racconta la storia di Wu Minhua, una giovane donna di trent’anni che tre anni fa tra le lacrime dei genitori ha deciso di dare le dimissioni da una posizione stabile e ben pagata come funzionario statale (gongwuyuan) per diventare dipendente del BOCOG. Qualche settimana fa essa ha ricevuto una lettera dai suoi superiori in cui le si annunciava il fatto che il suo rapporto di lavoro sarebbe di fatto terminato alla fine di dicembre 2008. Ad oggi, Wu ha inviato più di dieci curriculum, ma non ha ancora ricevuto una sola risposta. Come nota Wang Qian, l’autrice dell’indagine, “in quanto donna nubile di trent’anni, nella ricerca di un lavoro essa può trovarsi in una posizione favorevole solamente rispetto alle donne già sposate e ancora prive di figli, mentre ha di fronte a sé tutti i giovani di meno di 28 anni e persino quelle donne che hanno già avuto dei figli ma sono ancora giovani”.
Un futuro ancora più incerto attende quegli ex-dipendenti del BOCOG non più giovani. Yan Xin, una donna di 40 anni che in precedenza ha studiato all’estero e ha lavorato come avvocato, dall’ottobre del 2008 è senza un’occupazione: tutti i concorsi come funzionari pubblici e impiegati nelle banche sono infatti limitati a persone con meno di 35 anni di età. Richiamando le ragioni che l’avevano spinta ad entrare nel BOCOG, essa ha affermato che “si trattava di un gruppo pieno di idealisti” ed ha ricordato come tutti lavorassero più di dieci ore al giorno senza mai chiedere i salari per gli straordinari, semplicemente per paura che un ritardo nell’andamento dei lavori influenzasse l’apertura delle Olimpiadi.
Nel gennaio del 2008 un’importante banca cinese ha firmato un accordo con il Comitato Olimpico ad Olimpiadi concluse si impegnava ad assumere personale tra gli ex dipendenti del BOCOG, un gesto emulato in marzo da altre 47 importanti imprese statali. Il fatto è che quando nell’ottobre 2008 sono stati pubblicati i piani per la rioccupazione, le persone in questione si sono rese conto che i posti di lavoro non corrispondevano minimamente alle loro competenze e conoscenze. Si racconta persino la storia di una donna di 30 anni con un dottorato in filosofia, la quale dopo aver lavorato per due settimane in una famosa università della capitale come personale temporaneo per un salario di 3.000 yuan al mese è stata licenziata con l’argomentazione che quel posto di lavoro “non presentava alcuna prospettiva di sviluppo per una persona come lei”. In base a documenti interni del BOCOG, risulta che a metà dicembre fossero ancora 460 le persone senza lavoro.
Sono storie come queste a comporre il triste mosaico della disoccupazione in Cina. Se la maggior parte dei disoccupati rientra nelle tre macro-categorie dei lavoratori migranti, dei giovani laureati e dei lavoratori licenziati dalle imprese di Stato fallite, esistono inifinite altre realtà talmente specifiche da richiedere interventi e politiche assistenziali specifiche. Ma certo qualche centinaio di disoccupati in più in Cina non fa notizia come la trasformazione del Nido in un ipermercato.