mercoledì 29 luglio 2009

Cartolina dal villaggio maoista


Oggi, mentre navigavo in internet alla ricerca di alcuni vecchi articoli che ho pubblicato in Cina, mi è capitato di imbattermi in un breve pezzo sulla mia visita al villaggio maoista di Nanjiecun. Come poi ho avuto modo di verificare, l’autore è un giovane giornalista del giornale locale. Fang Yiren (il mio alter ego cinese) viene presentato con pompa degna di un capo di Stato, mentre le sue esternazioni sulle scelte economiche del governo locale vengono riportate con una magniloquenza che non sfigurerebbe su un’edizione del Quotidiano del Popolo di qualche decennio fa. In realtà ricordo con chiarezza l’imbarazzo di quell’intervista in cui mi si chiedeva di commentare i successi economici e sociali del modello di sviluppo collettivo del villaggio. Scoprire che nel mio piccolo ho contribuito alla propaganda di quella minuscola parte di Cina che rifiuta (ma sarà poi un vero rifiuto?) di adeguarsi alla modernità è per me allo stesso tempo fonte di orgoglio e sconcerto, ma credo che alla fine prevarrà semplicemente l’ironia.


La più grande agenzia fotografica italiana visita Nanjiecun

Il 16 e il 17 marzo Fang Yiren, giornalista di Contrasto, la più grande agenzia fotografica italiana, è venuto a Nanjiecun con un’altra persona [il fotografo Tommaso Bonaventura] per condurre alcune interviste e scattare delle foto, al fine di comprendere a fondo la situazione dello sviluppo della strada verso l’arricchimento comune e collettivo del villaggio.

Dopo essere arrivato a Nanjiecun, Fang Yiren si è immerso nelle aree industriali, negli alloggi degli abitanti del villaggio, nell’area panoramica, etc.; ha intervistato quadri dirigenti, lavoratori e alcuni abitanti. È venuto così a conoscenza della situazione delle attività del sindacato e di altri dipartimenti funzionali ed ha scattato una serie di foto fresche e piene di vita [per inciso, in quei giorni non ho mai preso in mano la macchina fotografica e non ho scattato una sola foto]. La mattina del 17 marzo, Fang Yiren ha intervistato il capo-villaggio nel suo ufficio. Il capo-villaggio ha descritto in dettaglio la sua esperienza di crescita individuale e la storia dello sviluppo di Nanjiecun a partire dal momento della fondazione della prima fabbrica di farina; ha spiegato perché Nanjiecun deve servirsi del pensiero di Mao Zedong per educare le persone e ha espresso gli obbiettivi della lotta per costruire una piccola comunità comunista; ha risposto a domande sull’impatto delle politiche di riforma e di apertura e dell’attuale crisi economica sul villaggio, così come ad altri interrogativi sui piani per il prossimo periodo. Dopo la fine dell’intervista a Fang Yiren e al capo villaggio è stata scattata una foto come ricordo.

Dopo la sua visita al villaggio, Fang Yiren ritiene che Nanjiecun sia un luogo molto armonioso [nessuno coglie l’ironia di questa mia affermazione?], in cui le persone non hanno motivo di preoccuparsi per la possibilità di perdere il lavoro, in cui nessuno deve temere per l’ordine pubblico e in cui tutti possono vivere felicemente, in pace e tranquillità. Egli ritiene che il suo articolo su Nanjiecun susciterà l’interesse degli italiani nei confronti di questo villaggio e allo stesso tempo farà sì che essi abbiano una conoscenza più profonda del pensiero di Mao Zedong e del comunismo [sic!]. Spera che in futuro avrà ancora occasione di venire in visita a Nanjiecun.

(Questo è il link all’originale. La foto nell’angolo in alto a sinistra è quella di Wang Hongbin, il capo villaggio.)

mercoledì 22 luglio 2009

Reportage: Il villaggio maoista


Qui di seguito riporto il testo di un mio reportage sul villaggio "maoista" di Nanjiecun che è stato pubblicato sabato scorso su D di Repubblica con il titolo "L'isola maoista".



In un'epoca di profonde riforme e grandi incertezze, mentre la Cina intera sta facendo passi da gigante nell'affrancarsi dall’ingombrante eredità del maoismo, alcune piccole comunità locali continuano a guardare al passato alla ricerca di qualche punto di riferimento per orientarsi nel caos del presente. Nanjiecun, un villaggio sperduto nelle campagne della provincia settentrionale dello Henan, è una di queste realtà sospese nel tempo, un mondo in cui ancora oggi la vita dei residenti ruota intorno ad una grande statua di Mao che nella piazza centrale del paese alza il braccio destro, quasi a benedire i passanti, sotto lo sguardo tacito e compiacente dei ritratti di Marx, Engels, Lenin e Stalin, posti in un circolo ideale alle spalle del Grande Timoniere. Due miliziani, ragazzini dall'aria ben poco marziale, fanno la guardia giorno e notte ai piedi del simulacro di colui che, come un'iscrizione sul piedistallo ricorda, "era un uomo e non un dio, ma attraverso il suo pensiero ha sconfitto gli dei".

Mao è una presenza palpabile nella vita degli abitanti di Nanjiecun: poco più di tremila residenti locali e oltre ottomila lavoratori migranti, provenienti per lo più dai villaggi dei dintorni. Ogni giorno essi si svegliano all’alba, accompagnati dalle note dell'inno maoista "L'Oriente è rosso", trasmesso a tutto volume dagli altoparlanti installati a ogni angolo di strada. Quando il coro rivoluzionario intona il verso "il sole è sorto, in Cina è nato un Mao Zedong...", le strade del villaggio, prima silenziose, si riempiono di vita. Soprattutto di giovani in motorino che vanno a lavorare nelle oltre venti fabbriche locali di proprietà collettiva. La cerimonia si ripete, assolutamente identica eccetto che per il differente sfondo musicale, alle 11.30 e alle 17.30, segnando così la pausa pranzo e la fine del turno pomeridiano in fabbrica.

Esattamente come nella Cina di trent'anni fa, al di fuori del lavoro a Nanjiecun la vita scorre monotona: non solo non esistono pub, karaoke, sale da massaggio - divertimenti considerati moralmente dannosi per la salute spirituale delle masse - ma anche i ristoranti si contano sulla punta delle dita. Con il buio le strade, tanto pulite da risultare asettiche, si svuotano e ai giovani del posto non rimane che ciondolare per i parchi in piccoli gruppi oppure concedersi qualche partita a ping pong nella locale sala da gioco. "Certamente a volte noi giovani sentiamo il bisogno di andarcene dal villaggio per divertirci in altri modi", racconta Wang Yanming, un giornalista ventiseienne della radio locale. Per chi desiderasse qualcosa di più, è sufficiente prendere una bicicletta e fare qualche centinaio di metri per uscire dai confini della cittadina e immergersi nella realtà comune a tanta parte della Cina rurale contemporanea. Un mondo fatto di rifiuti gettati con noncuranza sul terreno, piccoli ristoranti in cui si può mangiare con pochi soldi, banchetti improvvisati per la strada, sale da ballo, karaoke e bordelli.

Perché questo è il paradosso di Nanjiecun, un'isola maoista nel mare della Cina capitalista. Nei primi anni Ottanta le riforme in questo villaggio, allora un semplice paesino povero come tanti altri nella pianura dello Henan, erano state applicate senza troppi problemi: la terra era stata ridistribuita alle famiglie contadine perché la coltivassero individualmente e godessero dei frutti del loro lavoro e piccole imprese individuali cominciavano ad aprire per iniziativa degli abitanti. Poi, qualcosa è andato storto e la leadership locale ha deciso di fare marcia indietro. Dal 1984 le imprese sono state nuovamente collettivizzate e tra il 1986 e il 1990 tutti i terreni sono tornati sotto il controllo della collettività. Questo cambiamento può essere ricondotto all’influenza di Wang Hongbin, figura carismatica che da oltre trent'anni ricopre la carica di segretario di Partito del villaggio. È stato lui infatti che all'epoca convinse i compaesani a stabilire le prime imprese collettive, esaltando i vantaggi del modello di vita comunitario proprio nella congiuntura storica in cui il resto della nazione si accingeva a percorrere una via differente.

"I villaggi dei dintorni sono ancora così arretrati perché hanno un sistema sociale basato sulla famiglia, noi invece ci siamo resi conto della superiorità del modello collettivo: questo è il segreto del nostro successo", spiega un insegnante della scuola superiore locale. Dalla seconda metà degli anni Ottanta, gli abitanti di Nanjiecun hanno avviato la gestione collettiva di una serie di fabbriche, la più famosa delle quali rimane quella che produce i fangbianmian: gli spaghetti istantanei venduti in tutta la Cina, pranzo quotidiano di milioni di persone. I proventi delle imprese, sopravvissute ad un decennio di perdite grazie ai generosi finanziamenti delle banche statali, hanno sovvenzionato il welfare della popolazione locale. Gli abitanti del villaggio percepiscono salari bassissimi (al massimo 250 yuan al mese, trenta euro circa), ma godono di benefici previdenziali che susciterebbero invidia nella più generosa socialdemocrazia occidentale. Dalla culla alla tomba, tutte le loro spese sono coperte: istruzione (fino all’università), cure mediche (negli ospedali di tutta la regione), alloggi, luce, gas, acqua e persino la cremazione. Di fatto le spese per mantenere questa imponente macchina sono enormi: soltanto nell'ultimo anno l'amministrazione locale ha speso oltre quindici milioni di yuan per garantire il benessere dei propri cittadini.

"In passato la maggior parte delle case erano di paglia, le migliori erano di coccio: avevamo sempre freddo", ricorda Liu Gailian, una signora di 76 anni che ha passato tutta la vita nel villaggio. Nel 1993 i vecchi edifici trasandati di un solo piano in cui vivevano gli abitanti di Nanjiecun sono stati abbattuti e i loro ex-abitanti trasferiti in moderni condomini costruiti appositamente per ospitare l'intera comunità della popolazione indigena: un passo in più verso la collettivizzazione di questa micro-società. Eppure soltanto gli abitanti del villaggio hanno ottenuto il permesso di trasferirsi nelle nuove residenze, così come solamente loro in genere sono titolati a godere di tutti i benefici del welfare. E i lavoratori immigrati impiegati nelle locali industrie collettive? Ricevono salari più alti (intorno agli ottocento yuan al mese) e vitto e alloggio gratuiti, ma non possono usufruire delle stesse agevolazioni dei loro omologhi locali. Stando a quanto riportato da alcuni media nazionali, nel 2004 queste ineguaglianze, esasperate in un momento in cui le finanze del villaggio erano profondamente in crisi, avrebbero scatenato un'ondata di scioperi. Questo fatto però non è confermato da Qu Yuhong, un quadro del sindacato locale, che commenta: "Le nostre imprese sono armoniose: allora si è trattato solamente di un malinteso con i media e con la società".

Il successo dell'esperimento di Nanjiecun inevitabilmente ha finito per suscitare l'invidia di molte persone. "Gli abitanti di Nanjiecun se la passano troppo bene!" esclama seccato un signore di mezza età che vive ad un paio di chilometri dal villaggio. Tra gli abitanti dei dintorni, realtà rurali tuttora immerse nella povertà e nel degrado, serpeggia il malcontento: se la fama del "villaggio maoista" ha aiutato enormemente a sviluppare l'industria turistica dell'intera zona (le statistiche ufficiali vogliono che ogni anno dai trecento ai quattrocentomila turisti transitino per l'area), sono in molti a ritenere ingiusto il trattamento di favore che Nanjiecun ha sempre ricevuto dalle banche e dai governi provinciale e centrale. Anche se da qualche anno a questa parte l'era dei prestiti facili si è conclusa in seguito a un cambiamento di politica del centro in merito al credito rurale, questo esperimento di ingegneria sociale continua ad esistere.

Interrogato su quale sia la prossima tappa che si propone di raggiungere nel processo di creazione di una vera e propria "comunità comunista" basata sui precetti di Mao, Wang Hongbin ha risposto: "Entro tre anni stabiliremo una mensa comune in cui tutti potranno mangiare gratuitamente a piacimento, entro dieci anni tutti gli oggetti quotidiani saranno disponibili senza spesa in apposite stazioni di rifornimento: questo sarà il passo finale verso l'instaurazione del comunismo reale. Allora le masse saranno ricche al punto da non aver bisogno di mettere da parte un solo yuan". La stessa affermazione che compariva in un articolo pubblicato su una rivista cinese quattro anni fa. Da allora, nulla è cambiato: forse se ne riparlerà tra un'altra decina di anni.

domenica 19 luglio 2009

Repressione silenziosa a Pechino (II)


Qui di seguito riporto la traduzione di una dichiarazione congiunta pubblicata il 16 luglio da alcune note ONG cinesi con sede a Pechino. Una simile manifestazione di solidarietà tra ONG cinesi non si vede spesso. In genere accade in circostanze particolarmente gravi, come quando, nel dicembre 2007, Huang Qingnan, il leader di un'organizzazione non governativa cinese che si occupa di lavoratori migranti nella zona di Shenzhen, è stato aggredito per strada da sconosciuti armati di coltello. Questa ritrosia a creare una rete tra le varie organizzazioni può essere ricondotta essenzialmente a due ragioni: in primo luogo, la consapevolezza da parte degli attivisti dell'inevitabile repressione cui andrebbe incontro qualsiasi network creato dal basso; in secondo luogo, la divisione tra le varie ONG, fomentata dalla concorrenza per l'accesso a quei finanziamenti stranieri che tuttora costituiscono la loro principale fonte di sostentamento. Come scrive la specialista Ma Qiusha in quello che probabilmente è il libro più autorevole in lingua inglese ad oggi scritto su questo argomento, "La grande maggioranza delle organizzazioni locali e di base [in Cina] non ha accesso alle informazioni riguardo alle risorse internazionali disponibili. Solo quelle organizzazioni con dei dirigenti ben informati che sono a conoscenza delle operazione e delle risorse delle ONG internazionali hanno buone possibilità di ricevere fondi per le loro proposte. Eppure è diventata pratica comune che le ONG cinesi nascondano le une alle altre le informazioni sulle risorse internazionali, in quella che uno specialista cinese ha definito la 'mentalità da piccolo contadino'" (Ma Qiusha, Non-Governmental Organizations in Contemporary China, Routledge, London 2006, pg. 199). Purtroppo finché non si eliminerà questa dipendenza dai fondi stranieri e la conseguente competizione, difficilmente tra le ONG cinesi potrà svilupparsi quel minimo senso di solidarietà che permetterebbe loro di creare un fronte comune nei casi di necessità. È proprio per questo che una dichiarazione congiunta come quella tradotta qui di seguito è un segnale molto importante e sicuramente avrà delle conseguenze. Rimane da vedere se per una volta qualcuno nella stampa cinese o internazionale alzerà la voce per rompere questo assordante e imbarazzante silenzio.


Dichiarazione congiunta delle organizzazioni della società civile di Pechino sulla multa alla Gongmeng


Oggi abbiamo appreso con meraviglia da Xu Zhiyong, il rappresentante legale della Gongmeng, che alla Gongmeng, una struttura con registrazione commerciale a nome “Srl per la consulenza legale Gongmeng”, ha ricevuto la richiesta dell'Ufficio tributario del distretto di Haidian a Pechino e dell'Ufficio tributario statale di pagare le tasse con l'aggiunta di una multa, per una somma totale di 1.420.000 yuan. Le ONG lanciano un appello affinché i dipartimenti tributari riconsiderino la punizione selettiva nei confronti di ONG registrate come imprese.
Se in Cina si vuole utilizzare la forza del mondo civile per servire la società e stabilire un'organizzazione no profit, a causa delle leggi attualmente in vigore, inaspettatamente il miglior canale è quello di fondare un'impresa finalizzata al profitto. Attualmente numerose organizzazioni da una parte si impegnano ad accumulare fondi e servire la società, mentre d'altra parte si trovano a dover affrontare un'enorme pressione fiscale. Ultimamente, i dipartimenti tributari di Pechino hanno condotto dei controlli fiscali selettivi nei confronti di alcune organizzazioni no profit che si occupano del lavoro di tutela dei diritti umani, incluse la Srl per la consulenza Zhiaixing, lo studio legale Jingding, la Srl per la consulenza economica e sociale Chuanzhixing, etc. Sfortunatamente nel corso del controllo fiscale di quest'anno la Gongmeng ha ricevuto una multa elevatissima. In ogni caso, la multa selettiva odierna nei confronti di Gongmeng domani può capitare a qualsiasi ONG registrata con licenza commerciale. Questo tipo di salatissima multa selettiva ha bloccato l'ultima strada attraverso cui le organizzazioni del mondo civile possono servire la società.
Per questo noi richiediamo che:
1. Gli organi tributari del distretto di Haidian a Pechino riconsiderino le multe arbitrarie nei confronti delle organizzazioni no profit con registrazione commerciale;
2. Gli organi per la gestione aziendale annullino l'attuazione discriminatoria della legge nei confronti delle organizzazioni civili con registrazione commerciale;
3. Si sblocchi il lavoro di registrazione delle organizzazioni della società civile, per eliminare radicalmente la situazione vergognosa che vuole che le organizzazioni no profit si debbano registrare come organizzazioni finalizzate al profitto.
4. Ci si adegui a quanto avviene all'estero, dando sostegno finanziario alle organizzazioni no profit.

Firmatari:

- Beijing Huiling [organizzazione che si occupa dell'educazione e dell'inserimento sociale delle persone con malattie mentali]
- Beijing Yirenping Zhongxin ["Beijing Yirenping Center", organizzazione che si occupa della discriminazione dei malati di epatite B]
- Wuguojie Aixin ["Love without borders", organizzazione che si occupa di sviluppo sostenibile e giustizia sociale]
- De Xiansheng Yanjiusuo ["Institute for democratic society", organizzazione per la tutela dei diritti civili]
- Dagong zhi you [organizzazione che si occupa della tutela dei diritti dei lavoratori migranti]
- Zhongguo Lushi Guancha Wang [sito web per la diffusione della conoscenza legale]
- Beijing Aizhixing Yanjiusuo ["Love knowledge action", organizzazione che si occupa di aids, malattie sessualmente trasmissibili e, più in generale, di tematiche legate alla sessualità]
- NGO Chengxinwang [organizzazione che raccoglie una rete di ONG]

16 luglio 2009

Repressione silenziosa a Pechino

Mentre gli occhi del mondo intero rimangono puntati sugli scontri etnici nello Xinjiang, le autorità cinesi stanno approfittando dell’occasione per lanciare in sordina l’ennesimo attacco contro le organizzazioni non governative cinesi. Questa volta la prima vittima designata è la Gongmeng (un acronimo che in cinese sta per “lega civica per l’interesse pubblico”), un’associazione di avvocati volontari fondata nel 2003 a Pechino e divenuta celebre negli ultimi anni per essersi occupata di diversi casi particolarmente sensibili, dagli arresti arbitrari dei cittadini arrivati nella capitale per presentare una petizione allo scandalo del latte in polvere adulterato, e per aver assunto posizioni particolarmente scomode sulla questione della repressione in Tibet dopo le rivolte del marzo 2008.
Evidentemente le connessioni a livello istituzionale dei membri della Gongmeng, tutti avvocati di fama, non sono state sufficienti a garantire l’immunità dell’associazione. Come ha commentato una giornalista di un noto settimanale della Cina continentale, “la lega degli avvocati ha sempre avuto un sacco di problemi con il governo; chissà cosa hanno fatto questa volta per irritare le autorità a questo punto?”. Di fatto, rispondere a questa domanda è impossibile. La trasparenza del governo cinese nei confronti delle organizzazioni non governative è pari a zero, tanto che ad oggi non esistono leggi o regolamenti dettagliati che disciplinino la materia e l’arbitrio delle autorità è assoluto.
Registrare un’organizzazione non governativa in Cina è quasi impossibile. Gli scogli burocratici per la registrazione sono insormontabili e pertanto quasi tutte le ONG cinesi, pur essendo no-profit, scelgono di immatricolarsi presso le autorità con licenza commerciale, come comuni imprese. E’ proprio su questo cavillo che il governo cinese ha fondato il proprio attacco alla Gongmeng: il 14 luglio gli avvocati si sono visti recapitare dagli uffici delle imposte della municipalità di Pechino una comunicazione con cui si esigeva il pagamento di oltre 1.420.000 yuan tra tasse arretrate e multe varie. Il fatto che la multa fosse stata fissata alla somma massima esigibile, ha lasciato pochi dubbi sulle reali intenzioni delle autorità di Pechino e quando, la mattina del 17 luglio, funzionari dell’Ufficio per gli affari civili di Pechino hanno fatto visita alla sede dell’associazione per revocare la licenza di attività, pochi si sono meravigliati.
L’attacco alla Gongmeng lascia presagire l’ennesima campagna di intimidazioni da parte del governo nei confronti delle organizzazioni della società civile cinese. Lo strumento adottato stavolta sembra essere proprio quello della pressione fiscale. Da fonti interne che preferiscono non essere citate, siamo venuti a conoscenza del fatto che almeno un’altra organizzazione non governativa cinese, Aizhixing, specializzata nella tutela dei diritti delle persone malate di AIDS, ha ricevuto un avvertimento da parte delle autorità per mettersi in regola con il fisco. Allo stesso tempo, la battaglia si combatte anche su altri fronti: il 9 luglio le autorità giudiziarie di Pechino hanno pubblicato una lista di 53 avvocati a cui è stata revocata la licenza con il pretesto della mancata iscrizione ad un organismo corporativo di settore. Tra essi c’è anche Jiang Tianyong, un noto avvocato “per la tutela dei diritti”.
Come ha scritto sul suo blog Xu Zhiyong, famoso avvocato e membro prominente della Gongmeng, “questa multa non è per la Gongmeng, ma è per i bambini vittime del latte in polvere adulterato, per i ragazzi che studiano nelle scuole per i figli dei lavoratori migranti, per i proprietari che sono stati ingannati dalle imprese immobiliari, per coloro che con la giustizia nel cuore lottano per presentare petizioni… è una multa per migliaia, decine di migliaia di quelle persone senza forze e senza diritti che hanno maggiormente bisogno di aiuto, questa multa è davvero priva di coscienza”. Prontamente dopo alcune ore il sito è stato oscurato.

Qui di seguito riporto la traduzione integrale del post pubblicato da Xu Zhiyong. Prima che gli ammiinistratori del sito lo cancellassero, sono stato fortunato a stamparmene una copia. Oggi su un altro blog personale ospitato sulla pagina web della Gongmeng, Xu Zhiyong ha pubblicato il seguente commento: “Mi scuso, accetto la decisione di Xinlang [il sito che ospita il blog] di cancellare il post “Cielo! la Gongmeng deve pagare 1.420.000 yuan di multa” che ho pubblicato ieri sul mio blog, perché questo testo era pieno della mia arroganza. In seguito ad una riflessione, mi sono reso conto del mio errore: di fronte ad ogni compatriota, nel cuore non dovrebbe esserci rancore, così come non dovrebbe esserci alcun senso di superiorità. Correggerò coscienziosamente”. Oggi il blog di Xu Zhiyong è pienamente accessibile, anche se il post in questione è stato eliminato e sostituito da un saggio intitolato “Chi è il nemico della Cina?” scritto nel marzo 2009. In apertura, le stesse frasi di scusa.



Cielo! La Gongmeng deve pagare 1.420.000 yuan di multa

di Xu Zhiyong

Il 14 luglio 2009, la Gongmeng ha ricevuto una “Notifica di sanzione amministrativa per ragioni fiscali” inviata allo stesso tempo dall’Ufficio tributario locale e dall’Ufficio tributario nazionale di Pechino. In essa si notificava una sanzione amministrativa da applicare prima del 24 luglio, con 300.000 yuan di multa per le tasse locali, 180.000 yuan di tasse sul reddito e 930.000 yuan di multa per le tasse nazionali, per un totale complessivo di oltre 1.420.000 yuan.
Tra questi, i 300.000 yuan di multa per le tasse locali riguardano quattro finanziamenti ricevuti dal Dipartimento di scienze giuridiche dell’Università di Yale a partire dal 2006, così come un finanziamento ricevuto nell’aprile 2009 dal signor Wang Gongquan, ricercatore della Gongmeng. Abbiamo già pagato le tasse sul finanziamento di Yale nel maggio del 2009, mentre il finanziamento di Gongquan è stato appena riportato ai contabili ed è stato rilevato ancora prima che noi facessimo in tempo a versare le tasse. Anche la multa sulle imposte nazionali riguarda il progetto di cooperazione con Yale: ci siamo già impegnati a spiegare che il completamento del contratto di cooperazione del 2007 e del 2008 è stato confermato solamente all’inizio del 2009 e che pertanto tra il 2008 e il 2009 il progetto di cooperazione non è ancora stato completato e i soldi che ci sono stati dati possono essere considerati solo un anticipo. Inoltre, le donazioni ricevute dalla Gongmeng vengono interamente utilizzate per la ricerca giuridica e per garantire assistenza legale alle masse in difficoltà e pertanto non c’è nessuna eccedenza: da dove dovrebbero arrivare dunque quei 180.000 yuan di tasse sul reddito e quei 930.000 yuan di multa?
La Gongmeng è un’organizzazione votata all’interesse pubblico, registrata a malincuore come un’azienda mentre continuavamo a cercare di ottenere una registrazione civile. Ci siamo resi conto del fatto che l’amministrazione non è sufficientemente regolamentata, noi stessi non capiamo bene il fisco commerciale e industriale. Sebbene io abbia sempre enfatizzato l’importanza del fatto che nella nostra contabilità non ci fossero errori giuridici, i contabili specializzati che abbiamo coinvolto non sono stati in grado di darci un aiuto tempestivo. Nel momento dei controlli fiscali, siamo stati estremamente collaborativi, correggendo attivamente alcuni errori. Tuttavia, di fronte ad un’intenzione malvagia, tutti questi sforzi sono privi di significato. Anche la tassa sull’attività che abbiamo già pagato è stata inclusa nella multa e anche se non abbiamo alcuna eccedenza veniamo multati della tassa sul reddito. Inoltre, se la legge prevede che l’ammontare della multa debba essere compreso tra il 50% e il 500%, i dipartimenti tributari senza alcuna ragione ci hanno multati nella maniera più severa.
Una multa di 1.420.000 yuan forse per molte imprese non è niente, ma per la Gongmeng è crudele. Questa non è una multa per la Gongmeng, ma per i bambini vittime del latte in polvere adulterato, per i ragazzi che studiano nelle scuole per i figli dei lavoratori migranti, per i proprietari che sono stati ingannati dalle imprese immobiliari, per coloro che con la giustizia nel cuore lottano per presentare petizioni… è una multa per migliaia, decine di migliaia di quelle persone senza forze e senza diritti che hanno maggiormente bisogno di aiuto. Questa multa è davvero priva di coscienza!
Eravamo già molto prudenti. Pensando ad alcune bestie prive di cuore con la lingua biforcuta, abbiamo rifiutato i finanziamenti di alcune fondazioni. Abbiamo scelto il Dipartimento di scienze giuridiche dell’Università di Yale perché loro hanno finanziato anche alcuni organi governativi, io li conosco e loro amano la Cina. Il progetto di cooperazione tra la Gongmeng e Yale include: lo studio della riforma del sistema della registrazione familiare a Pechino, che ha offerto alcuni suggerimenti sul sistema di inserimento dei nuovi immigrati; alcune discussioni pubbliche sul problema degli espropri forzati delle abitazioni, sul caso del segretario di Partito della contea di Xifeng che è venuto fino a Pechino per arrestare un giornalista; gli appelli per la tutela dei diritti di proprietari delle case; l’opposizione all’abbattimento forzato delle scuole per i figli dei lavoratori migranti; l’assistenza legale in alcuni casi estremi come quello del cittadino di Chengde nello Hebei condannato a morte cinque volte pur essendo innocente o di Du Xuelei picchiato a morte dalla polizia; diversi suggerimenti per la riforma del sistema giudiziario; l’invio di suggerimenti ogni anno all’Assemblea Nazionale Popolare e alla Conferenza Consultiva del Popolo Cinese; etc. Tutti i nostri sforzi sono ragionevoli e costruttivi. Con buona volontà, noi promuoviamo la democrazia, lo stato di diritto, l’equità e la giustizia. Abbiamo sempre avuto dentro di noi questo desiderio innocente.
I soldi del progetto di cooperazione sono già finiti. La Gongmeng è un gruppo di volontari, tutti i nostri membri partecipano sulla base della loro coscienza e del loro senso di giustizia. A parte alcune persone impiegate a tempo pieno nell’ufficio, la maggior parte di noi membri non prende un salario, usiamo tutti i soldi per attività all’insegna della giustizia e della bontà. Non abbiamo alcun profitto e non abbiamo neppure mai avuto in programma di ottenere alcun guadagno, il nostro unico raccolto è la compassione. Se ora i dipartimenti tributari vogliono che la Gongmeng paghi 180.000 yuan di tasse sul reddito e 930.000 yuan di multa, questa somma enorme può venire solamente dai soldi ora in possesso dell’organizzazione: amici estranei l’uno all’altro che donano 100, 200 o persino 5 o 10 yuan.
Questo non è possibile! Essendo il rappresentante legale della Gongmeng, sono disposto ad accettare 7 anni di carcere pur di non dare questi 5, 10 yuan a bestie prive di cuore. Dire che Xu Zhiyong ha commesso il reato di frode fiscale è come quando la polizia di Linyi mi ha accusato di essere un ladro [il riferimento è a un fatto accaduto qualche anno fa, quando Xu Zhiyong si è recato in questo villaggio della provincia dello Shandong per assistere un attivista locale allora sotto processo a causa delle sue azioni contro una campagna di aborti e sterilizzazioni forzate in atto nella zona; allora, proprio il giorno prima dell’inizio del processo, Xu fu fermato dalla polizia locale con l’accusa di essere un ladro], ridicolo!
Forse ci sono persone che alle spalle dicono con cattiveria che la Gongmeng ha obiettivi politici. A queste parole rispondo con compassione. I nostri obiettivi politici sono molto chiari: siamo per la democrazia, lo stato di diritto, la giustizia e l’equità in questo Stato, per la felicità e la libertà di ogni individuo, non solo per le singole persone che noi aiutiamo nel concreto, ma soprattutto per stabilire un sistema completo, basato sul diritto e democratico, per far sì che tutte le persone, inclusi quei compatrioti che fino ad oggi hanno continuato a nutrire ostilità nei nostri confronti, possano ottenere giustizia, libertà e rispetto.
Alcune persone affermano che la Gongmeng dà fastidio alla società. E’ come se io avessi visto una faccia distorta dal rancore che dice “alla fine ti abbiamo preso, sarai punito” e che poi mi punisce selvaggiamente, basta che io faccia una minima cosa perché mi punisca, “provateci ancora a darmi fastidio”! Non siamo noi che diamo fastidio: le decine di migliaia di incidenti di massa [eufemismo cinese con cui ci si riferisce alle manifestazioni e alle contestazioni pubbliche] che succedono ogni anno non sono causate da noi, Yang Jia [giovane di Pechino, poi condannato a morte, che è diventato un eroe popolare in Cina dopo aver ucciso a coltellate sei poliziotti in un commissariato di Shanghai nel 2008] non lo abbiamo creato noi. Al contrario, noi ci siamo sempre sforzati di riportare nei binari della legge le contraddizioni create da funzionari corrotti, abbiamo promosso l’assoluta non violenza, speriamo che le contraddizioni e gli odi infiniti nella nostra società possano essere risolti attraverso l’amore. Noi non siamo solamente per quelle vittime della malvagità e dell’ingiustizia, siamo anche per i carnivori superiori, abbiamo un profondo senso di responsabilità nei confronti di questa nazione: non dobbiamo permettere che in questo Stato accada ancora una volta uno sconvolgimento tale che persino i potenti non abbiano più un posto dove seppellire i loro morti, non dobbiamo lasciare che la tragedia del nostro popolo si ripeta.
Perché, perché dobbiamo ricevere una simile punizione? E’ a causa della nostra temibile giustizia, perché noi promuoviamo una politica meravigliosa, perché i nostri ideali sono troppo belli, perché non abbiamo mai rinunciato alle nostre speranze nei confronti di questa nazione, perché nonostante tutto nei nostri cuori siamo sempre stati pieni della luce della speranza.
Sono felice di diventare ancora una volta un ladro. La prima volta è stato a Linyi: allora sono stato accusato di essere un ladro e sono stato portato alla stazione di polizia. In quell’occasione, senza alcun avvocato difensore, il mio amico [Chen Guangcheng] – un uomo cieco sin da ragazzo che combatteva con tutte le sue forze per il rispetto dei contadini locali – è stato condannato a quattro anni di carcere per il crimine di danno intenzionale alla proprietà. Questa volta è successo a Pechino, e io ruberei le tasse: hahaha! Io sono povero, ai poveri rimane solamente la fede. Grandi uomini, lasciate che vi dia anche solo un briciolo della mia bellissima fede, va bene? Voi dovreste aver bisogno di questa fede, dovreste avere la mia stessa capacità di provare misericordia, di guardare con compassione gli spiriti senza pace di demoni e mostri.
Sono un povero, siamo una massa di poveri, non potete derubarci dei nostri soldi e non potete nemmeno portarci via le nostre convinzioni. Non proviamo furore, né tantomeno odio, siamo pieni di compassione e continuiamo a camminare lungo la nostra strada. La Gongmeng non sarà distrutta, la speranza nella giustizia e nella bontà di questa nazione non sarà estirpata.

giovedì 2 luglio 2009

Cronache dalle fornaci cinesi



Negli ultimi mesi sul blog del “vecchio stolto” mi è capitato di soffermarmi più di una volta sul problema del traffico di esseri umani legato alle fornaci clandestine sparse nelle campagne dello Shanxi. Come molti altri, ho sentito parlare per la prima volta di questa realtà un paio di anni fa, quando i media cinesi hanno ampiamente riportato la storia di un gruppo di genitori della provincia dello Henan che viaggiavano in lungo e in largo per il paese alla ricerca dei figli adolescenti scomparsi, con ogni probabilità rapiti da trafficanti e rivenduti come schiavi in migliaia di fornaci di mattoni clandestine. Di fatto, per tutta l’estate del 2007, in Cina, un’opinione pubblica indignata non parlava d’altro, prima che anche questa notizia inevitabilmente precipitasse nel dimenticatoio.
In questi giorni la casa editrice Cafoscarina ha pubblicato “Cronache dalle fornaci cinesi”, un volume su questo argomento da me curato. Invece di usare una prospettiva “esterna” per raccontare uno dei più gravi scandali del lavoro avvenuti in Cina negli ultimi anni, per una volta ho deciso di lasciare la parola ai cinesi stessi, traducendo una serie di reportage apparsi sulla stampa locale nell’arco temporale di oltre un anno, raccontando così ai lettori italiani il problema nella stessa maniera in cui a suo tempo è stato raccontato al pubblico cinese. L’obiettivo era quello di rendere l’idea di come un buon giornalismo investigativo, l’indignazione per la violazione dei più elementari diritti dell’individuo e la volontà di migliorare la società in cui si è immersi non siano prerogative esclusivamente occidentali, come fin troppo spesso ci viene raccontato.
Ricostruire ora uno scandalo avvenuto un paio di anni fa può sembrare una scelta un po’ tardiva, eppure ci sono almeno due ragioni per cui la storia delle fornaci non dovrebbe essere dimenticata. La prima ragione sta nel fatto che le fornaci di mattoni clandestine, con il loro carico di sangue e sudore, continuano ad esistere nelle campagne cinesi. Giusto un mese fa nella provincia dello Anhui, la polizia locale ha scoperto due fabbriche di mattoni in cui oltre trenta disabili venivano tenuti in condizioni di schiavitù ed è tristemente noto come ancora oggi siano moltissimi i genitori alla ricerca dei figli scomparsi. La seconda ragione è che la storia delle fornaci è ben rappresentativa del ruolo dei media nella Cina di oggi: ben lungi dall’essere tutti veline del Partito, enormemente rafforzati dalla presenza di internet e dall’attivismo di un “popolo della rete” estremamente sensibile e coeso, essi sono una potente forza sociale di cui il governo, per quanto autoritario, non può non tenere conto.
Più che una denuncia, questo libro è una testimonianza. Se da un lato l’obiettivo è quello di raccontare il persistere nella società cinese dei lati oscuri dello sprezzo della sofferenza altrui a favore del personale guadagno, della violenza e delle torture vissute con naturalezza in una società rurale per alcuni versi mai uscita dall’epoca feudale, dall’altro esso si propone di trasmettere un barlume di speranza per il futuro, descrivendo come in Cina esista una società civile composta da avvocati, giornalisti, blogger e semplici cittadini pronti a mobilitarsi per aiutare i deboli e gli emarginati. Un altro aspetto di questo immenso paese che forse varrebbe la pena raccontare più spesso.

Qui di seguito riporto l’introduzione al volume:


Quando alla fine di luglio del 2007 in uno dei quartieri del centro di Pechino sono stati avvistati alcuni fiocchi di neve, a molti cinesi è venuto in mente un antico adagio popolare: se nevica d’estate nella capitale, una gravissima ingiustizia è stata commessa. In un’epoca di continue prepotenze e disuguaglianze, quale crimine degli uomini poteva essere così grave da arrivare a suscitare addirittura la collera della natura? Senza alcuna esitazione, i pensieri dei pechinesi sono immediatamente corsi alle fornaci di mattoni clandestine della provincia dello Shanxi, a quelle migliaia di prigioni a cielo aperto ove chiunque si fosse degnato di guardare avrebbe visto dei ragazzi appena adolescenti trascinare pesantissimi carri carichi di mattoni, dei disabili maltrattati e derisi occuparsi di lavori così pericolosi che nessuna persona sana di mente avrebbe mai fatto volontariamente, giovani ustionati dalle ferite mai curate, il tutto sotto l’occhio vigile e feroce di sorveglianti e cani da guardia. Per anni nessuno aveva guardato, non gli organi della pubblica sicurezza locale, non gli uffici preposti alla tutela dei lavoratori e neppure gli abitanti dei villaggi in cui queste fornaci operavano. Poi un giorno le cose erano inaspettatamente cambiate.
Il cambiamento è nato dall’azione di alcuni genitori coraggiosi, conosciutisi attraverso gli annunci per le persone scomparse pubblicati sulle pagine di alcuni giornali locali della provincia dello Henan, una delle zone economicamente depresse del paese, punto d’origine di imponenti flussi migratori. All’inizio del 2007, i loro figli erano scomparsi uno dopo l’altro in circostanze molto simili nelle strade di Zhengzhou, il capoluogo provinciale, ed erano bastate alcune settimane di angosciate quanto infruttuose ricerche perchè questi padri e queste madri si convincessero che i ragazzi erano finiti nella rete di trafficanti di esseri umani che approvvigionava le fornaci di mattoni dello Shanxi, un inferno ancora sconosciuto ai più. Sei genitori si erano allora incontrati a Zhengzhou ed avevano deciso di aiutarsi a vicenda nella comune sventura, dando vita a quella piccola organizzazione che successivamente i media cinesi avrebbero battezzato “lega per la ricerca dei figli”.
I genitori della “lega” correvano in lungo e in largo per le campagne delle zone meridionali dello Shanxi, perlustrando ogni singola fornace, verificando ogni traccia, interrogando lavoratori e abitanti dei villaggi. Essi sopportavano stoicamente le umiliazioni e gli attacchi quotidiani da parte dei padroni delle fornaci e dei loro tirapiedi. Ogni tanto riuscivano persino a salvare qualche ragazzo, anche se purtroppo non si trattava mai di uno dei loro figli. È stato allora che un secondo importante personaggio è entrato in scena: il giornalista televisivo Fu Zhenzhong. Raccogliendo una segnalazione telefonica giunta proprio da uno dei genitori della “lega”, questo giornalista di una piccola rete televisiva locale dello Henan ha deciso di investigare a fondo la storia delle fornaci (sulla quale nutriva non pochi dubbi) e per farlo si è unito a questi padri e a queste madri nelle loro peregrinazioni alla ricerca dei figli. È stata proprio la telecamera nascosta di Fu Zhenzhong a registrare le prime agghiaccianti immagini delle fornaci, trasmesse in televisione per la prima volta il 19 maggio del 2007 alle 7.30 di sera. L’effetto è stato immediato e dirompente: nei giorni successivi sono stati almeno un migliaio i genitori che si sono rivolti alla rete televisiva per chiedere aiuto.
Il merito di Fu Zhenzhong è stato quello di aver esposto mediaticamente lo scandalo e di aver fatto conoscere al pubblico l’esistenza di quelle fornaci di mattoni clandestine di cui ben pochi prima erano al corrente. È stato solamente grazie alle immagini girate da Fu Zhenzhong che centinaia di genitori sono finalmente riusciti a trovare una direzione verso la quale orientare le proprie ricerche, uscendo dall’abisso della disperazione più nera. Eppure non bisogna dimenticare che la rete televisiva di questo intraprendente giornalista non è altro che una realtà locale, il cui seguito è limitato esclusivamente alla provincia dello Henan, la zona in cui la maggior parte dei ragazzi era scomparsa. Per capire come lo scandalo sia scoppiato a livello nazionale è dunque necessario introdurre un terzo personaggio: la signora Xin Yanhua, una giovane donna di Zhengzhou. Quando nei primi mesi del 2007 suo nipote è stato salvato da una fornace di mattoni dello Shanxi da alcuni genitori della lega per la ricerca dei figli, essa, mossa da riconoscenza, ha deciso di aiutare a modo suo le ricerche di questi padri e queste madri. Sfruttando il proprio livello superiore di istruzione, essa ha inizialmente tentato di coinvolgere la stampa nel dramma di queste famiglie, ma poi, non avendo ottenuto alcun risultato significativo, ha scelto di servirsi di un nuovo strumento: la rete. Il 6 giugno del 2007, Xin Yanhua ha pubblicato su un forum locale dello Henan un post intitolato “Quattrocento padri chiedono aiuto piangendo sangue: chi verrà a salvare i nostri figli?”. Le reazioni sono state immediate: in poche ore tutti i maggiori siti internet cinesi avevano riportato il testo dell’appello, accompagnandolo con delle foto tratte dai reportage di Fu Zhenzhong. Solo allora i giornalisti dei principali organi televisivi e della carta stampata a livello nazionale hanno cominciato ad affluire senza sosta nello Shanxi ed ondate di articoli, commenti e invettive sulle fornaci dello Shanxi sono apparsi su tutti i media cinesi.
I media cinesi hanno continuato a seguire gli sviluppi della vicenda per almeno due mesi, fino alla prima metà di agosto. In questo lasso di tempo, in seno all’opinione pubblica si è sviluppato un infuocato dibattito su chi dovesse assumersi la responsabilità di quanto era accaduto. Alcuni si limitavano a rimpiangere i tempi del presidente Mao, quando, a sentire loro, una cosa del genere non sarebbe mai potuta succedere, altri proponevano analisi più articolate, in cui mettevano in discussioni le basi stesse del sistema politico cinese. Nel frattempo giovani attivisti partivano a proprie spese per la provincia dello Shanxi per unirsi alle ricerche dei ragazzi scomparsi e gruppi sempre più grandi di genitori e di volontari si aggiravano per le campagne passando al setaccio tutte le fornaci di mattoni. Le massime cariche del Partito e dello Stato emettevano indicazioni trasudanti indignazione e il governo centrale cinese, preoccupato per gli sviluppi del caso, cercava di recuperare il terreno perduto lanciando operazioni di polizia su scala interprovinciale, adottando piani quinquennali per la lotta al traffico di esseri umani e approvando leggi sul lavoro che sui media ufficiali venivano fatte passare come una risposta concreta alla tragedia delle fornaci.
Dal mese di agosto l’attenzione dell’opinione pubblica è drammaticamente diminuita e con essa quella delle autorità. A metà agosto, nel corso di una conferenza stampa il governo centrale ha annunciato che la grande indagine nazionale sulle fornaci di mattoni clandestine si era conclusa e che nel corso delle operazioni erano state salvate trecentocinquantanove persone, tra le quali dodici ragazzi e centoventuno adulti con problemi mentali. Com’era possibile allora che molti genitori non avessero ancora ritrovato i propri figli? Diversi testimoni raccontano come nel momento in cui la notizia degli imminenti controlli si era diffusa tra la popolazione, intere fornaci si fossero svuotate dalla sera al mattino, senza che dei lavoratori rimanesse più traccia. Eppure, anche di fronte a questi fatti, non sono stati molti quelli che hanno continuato a porsi degli interrogativi. Mentre le autorità davano inizio ad una controffensiva con la quale i genitori dello Henan (in particolare la signora Xin Yanhua) e i media venivano accusati di allarmismo ed esagerazione, alcune persone isolate hanno continuato a lottare perché la vicenda giungesse ad una vera conclusione, primo fra tutti IamV, uno pseudonimo dietro al quale si nasconde un giornalista che all’epoca era redattore di un importante giornale della Cina meridionale. IamV, che ha gentilmente accettato di scrivere la postfazione al presente volume, alla fine dell’estate 2007 ha aperto diversi blog su cui ancora oggi continua a fornire aggiornamenti sui principali protagonisti della vicenda, pubblica annunci per le persone scomparse e lancia iniziative benefiche come raccolte di fondi, forum e discussioni.
Sono decine, se non centinaia, le vite, le storie, le esperienze che si intrecciano nello scandalo delle fornaci clandestine, uno scandalo che tuttora prosegue nella generale indifferenza. Se alcuni genitori hanno ormai potuto riabbracciare i propri ragazzi, dei giovani che in ogni caso non saranno mai più quelli che erano prima, molti altri vivono tuttora in uno stato di costante angoscia, mentre vedono le proprie speranze affievolirsi di giorno in giorno. Quasi due anni dopo, alcune delle fornaci che allora erano finite nell’occhio del ciclone sono ancora al loro posto, rivestite da un sottile strato di legalità ispirato dalla prudenza, mentre molte altre sono sparite senza lasciare tracce. Se forse non è più opportuno parlare di fornaci associando questa realtà esclusivamente ai limiti geografici della provincia dello Shanxi, resta il fatto che fenomeni analoghi alle fornaci clandestine continuano ad esistere in diversi angoli bui della Cina, nel profondo delle campagne, là dove nessuno va a guardare. La storia narrata in queste pagine infatti non conosce limiti di tempo e di spazio: è l’eterno racconto dei forti che opprimono i deboli, dei furbi che approfittano dei semplici, dell’avidità di chi non ha mai abbastanza e del silenzio complice di intere comunità di gente impegnata a tirare avanti. Quella delle fornaci è una storia che non può invecchiare.
Interessandomi ormai da tempo alle varie sfaccettature del mondo del lavoro in Cina, sin dall’inizio ho sentito il bisogno di approfondire questa realtà. È stato leggendo gli articoli che all’epoca venivano pubblicati sulla stampa cinese che mi è venuta l’idea alla base di questo volume: perché per una volta non raccontare uno scandalo del lavoro in Cina partendo dal punto di vista dei cinesi stessi? Perché non utilizzare materiali originali per descrivere il flusso degli eventi, la psicologia dei personaggi, l’indignazione dei cittadini? Perché non approfittare di tutto ciò per estendere la riflessione al ruolo dei media cinesi nella società cinese contemporanea? Ecco dunque le ragioni per cui in questo libro sono semplicemente raccolti sei articoli apparsi sulla stampa cinese tra il giugno del 2007 e il marzo del 2008, ognuno dei quali è introdotto da una mia breve nota esplicativa. A dispetto della potenziale varietà di fonti disponibili, per garantire una certa continuità alla narrazione ho scelto di privilegiare due importanti pubblicazioni della Cina meridionale, il Nanfang Zhoumo e il Nandu Zhoukan, entrambi settimanali del gruppo editoriale Nanfang Jituan che nel tempo sono riusciti a costruirsi una reputazione anche a livello internazionale, media della carta stampata famosi per le loro coraggiose scelte editoriali e per la qualità di un giornalismo investigativo che non ha nulla da invidiare al suo omologo occidentale.
Erano tante le storie che avrei potuto scegliere, ma ho deciso di raccontare lo scandalo delle fornaci perché esso permette di capire qualcosa in più della realtà dei media cinesi. Lo sviluppo del caso delle fornaci clandestine sui media cinesi infatti è fortemente paradigmatico, la classica parabola del “giornalista solitario” che, volutamente o meno, mette in crisi il sistema. La catena di eventi è sempre la stessa: viene commessa un’ingiustizia; le vittime vagano per mesi nella generale indifferenza da un funzionario all’altro, nella speranza che qualcuno le aiuti; un giornalista viene a conoscenza della cosa e decide di approfondire la loro storia; il giornale, spesso qualche realtà locale relativamente piccola, pubblica l’indagine; internet e i media nazionali riprendono l’articolo; in seguito alla reazione di lettori e netizen si scatena una tempesta a livello nazionale.
Solamente nella migliore delle ipotesi, questo percorso giunge alla sua conclusione. Spesso una potenziale notizia si blocca a metà strada, di fronte ad uno dei tanti ostacoli che possono frapporsi ad una sua pubblicazione: può essere la corruzione del giornalista, che accetta tangenti in cambio del silenzio; può essere una prudente autocensura del giornale e della rivista; può essere un diretto intervento del potere politico, per tramite di “indicazioni” emanate dagli organi amministrativi a qualsiasi livello. Solamente le notizie che riescono a superare tutte queste barriere, possono giungere all’occhio e all’orecchio del grande pubblico e scatenare la dovuta dose di indignazione e risentimento. Naturalmente esiste anche un tipo di censura che opera a posteriori, stroncando la circolazione di una storia già pubblicata, ma ciò non succede tanto spesso quanto si crede: anche in Cina la prevenzione prevale sulla repressione, tanto più in considerazione del fatto che i nuovi media, in particolare internet, sono molto difficili da controllare.
In conclusione, se da un lato questo volume si propone di presentare al pubblico italiano uno dei più gravi scandali del lavoro avvenuti in Cina negli ultimi anni, dando un nome ed un volto ai protagonisti di questa tragedia, evitando le generalizzazioni e umanizzando in questo modo la sventura che ha colpito la psiche di un intero popolo, dall’altro l’obiettivo è anche quello di utilizzare alcune fonti di prima mano per dare al lettore straniero un’idea di quello che sono i media nella Cina di oggi, della forza e del coraggio di questi giornalisti e di queste persone che, a dispetto di tutte le forze avverse, lottano per costruire una società migliore. La decisione di raccontare la storia delle fornaci di mattoni attraverso gli occhi dei media cinesi è stata una scelta ponderata, tanto più che essa presenta l’indubbio vantaggio di prevenire facili strumentalizzazioni su un tema delicato come quello del lavoro nella Repubblica Popolare Cinese. Di fatto, anche in una vicenda tanto tragica è possibile trovare un punto luminoso, e questo sta proprio nel ruolo dei media, della rete e più in generale della nuova società civile cinese.