domenica 13 dicembre 2009

Alcune riflessioni sulla dialettica tra Stato e società nella Repubblica Popolare Cinese


Il testo integrale del mio intervento pubblicato nell’ultimo numero della rivista Italianieuropei, con un ringraziamento a Federico Antonelli.


1.

Sin dagli anni Ottanta, le autorità cinesi hanno compreso che, se volevano riuscire nello sforzo di modernizzare il paese, non potevano mantenere il livello di controllo sulla vita degli individui che avevano avuto fino a quel momento. Il conseguente ritiro dello Stato dalla vita dei cittadini, una scelta calcolata ben riassunta nello slogan “piccolo governo e grande società” (xiao zhengfu, da shehui), ha posto le basi per una vera e propria rinascita della società civile nella Repubblica Popolare Cinese. Nella Cina degli ultimi trent’anni non solo si è avuta una fioritura delle organizzazioni della società civile, tanto che gli specialisti stimano il loro numero attuale nell’ordine dei milioni, ma anche si sono aperti nuovi canali politici e mediatici attraverso cui i cittadini possono influenzare il processo decisionale in un sistema ancora fondamentalmente autoritario. Prendendo spunto da alcuni fatti dell’attualità, la presente analisi si propone di illustrare alcuni aspetti di questo percorso storico, mettendo in luce la complessità della dialettica tra il governo cinese e le nuove forze sociali che esso stesso ha contribuito ad innescare.

2.

Nonostante si sia trattato di un processo sociale che esso stesso ha innescato, il governo cinese rimane molto diffidente nei confronti delle organizzazioni della società civile. Più di ogni altra cosa, teme che nel paese avvenga una “rivoluzione colorata” e pertanto non perde occasione per riaffermare il proprio controllo su quelle realtà sociali organizzate che sembrano sfuggirgli di mano. L’ennesima dimostrazione di ciò si è avuta nell’estate del 2009, quando, mentre gli occhi del mondo intero erano ancora puntati sugli strascichi degli scontri etnici nello Xinjiang, le autorità di Pechino hanno deciso di lanciare una campagna d’intimidazioni contro le organizzazioni della società civile. In quelle circostanze, la vittima designata è stata la Gongmeng (in inglese “Open Constitution Initiative”), un’associazione legale per la tutela dell’interesse pubblico fondata nel 2003 a Pechino da quattro giovani laureati in legge, all’epoca già noti al grande pubblico grazie al loro ruolo in alcuni casi di notevole rilevanza. Nella sua breve esistenza, quest’organizzazione aveva avuto modo di acquisire una fama notevole sia in Cina che all’estero, essendosi occupata di alcune delle questioni più scottanti degli ultimi anni, dalla detenzione arbitraria dei cittadini arrivati nella capitale per presentare una petizione allo scandalo del latte in polvere adulterato, dalla politica cinese in Tibet alla pena di morte. Tutto ciò l’aveva trasformata in un vero e proprio simbolo della rinascita della società civile nella Cina contemporanea.
Dal momento che il governo cinese, vincolato dalla sua stessa retorica sull’importanza dello stato di diritto, non può permettersi di chiudere arbitrariamente organizzazioni con una visibilità notevole come la Gongmeng, problemi fiscali sono stati addotti come pretesto per l’attacco. Allo stato attuale della legislazione, registrarsi come “organizzazione non governativa” in Cina è quasi impossibile, soprattutto se ci si occupa di tematiche che la autorità considerano “sensibili”. È un fatto che la maggior parte delle organizzazioni della società civile cinese, pur rimanendo non profit, sceglie di immatricolarsi come azienda, accollandosi in tutto e per tutto lo stesso carico fiscale di una realtà commerciale. In questo, la Gongmeng non faceva eccezione. Ecco allora che la mattina del 14 luglio gli avvocati dell’organizzazione si sono visti recapitare in ufficio una comunicazione da parte dell’Ufficio delle imposte della municipalità di Pechino, in cui si chiedeva loro di corrispondere oltre 1.420.000 yuan (circa 140.000 euro) tra tasse non pagate e multe varie, una somma enorme per una struttura priva di introiti commerciali. Se nulla esclude che realmente ci siano state delle irregolarità finanziarie, il fatto che la multa fosse stata fissata alla somma massima esigibile ha lasciato ben pochi dubbi sulle reali intenzioni delle autorità di Pechino, tanto che quando, la mattina del 17 luglio, funzionari dell’Ufficio per gli affari civili di Pechino hanno fatto visita alla sede dell’associazione per revocare la licenza di attività, pochi si sono meravigliati.
Il giorno successivo alla notifica della multa, l’avvocato Xu Zhiyong, il vero volto dell’organizzazione, sul suo blog ha pubblicato un lungo sfogo, testo che è stato prontamente cancellato dagli amministratori del sito. Tra l’altro, egli scriveva: “Questa multa non è per la Gongmeng, ma è per i bambini vittime del latte in polvere adulterato, per i ragazzi che studiano nelle scuole per i figli dei lavoratori migranti, per i proprietari che sono stati ingannati dalle imprese immobiliari, per coloro che con la giustizia nel cuore lottano per presentare petizioni… è una multa per migliaia, decine di migliaia di persone senza forze e senza diritti che hanno bisogno di aiuto. Questa multa davvero non ha coscienza”. Se molte persone comuni che negli ultimi anni hanno avuto modo di beneficiare dell’aiuto dell’organizzazione sono immediatamente accorse a Pechino per manifestare la propria solidarietà agli avvocati, nelle settimane successive un’opinione pubblica impotente non ha potuto far altro che assistere all’arresto di Xu Zhiyong, trascinato fuori dalla sua abitazione alle cinque di mattina del 29 luglio, e allo smantellamento di una struttura che negli ultimi cinque anni era stata un punto di riferimento. Per quasi un mese di Xu Zhiyong non si è saputo più nulla, fino a quando, il 23 agosto, è stato rilasciato, in attesa di un’eventuale incriminazione. Da allora egli ha scelto di mantenere un basso profilo, evitando di concedere interviste e di farsi vedere in pubblico.
Nel frattempo, altre organizzazioni della società civile ed altri individui sono finiti nel mirino, a Pechino come altrove. Il 9 luglio, prima dell’attacco alla Gongmeng, le autorità giudiziarie della capitale avevano pubblicato una lista di 53 avvocati a cui era stata revocata la licenza, con il pretesto della mancata iscrizione ad un organismo corporativo di settore. Tra essi si contavano alcuni avvocati “per la tutela dei diritti” (weiquan), tra cui Jiang Tianyong, noto anche per essersi occupato di alcuni casi di tortura ai danni di seguaci della setta del Falungong. Il 29 luglio, Yirenping, un’organizzazione della società civile che si occupa della discriminazione dei portatori del virus dell’epatite B, ha ricevuto la visita di alcuni funzionari dell’Ufficio della pubblica sicurezza municipale e di un dipartimento per la supervisione delle attività pubblicistiche sottoposto al Ministero della cultura, i quali con il pretesto di un’indagine su alcune “attività di stampa illegali” hanno sequestrato una pubblicazione ad uso interno in cui di mese in mese si raccoglievano i principali articoli apparsi sulla stampa cinese sul tema della discriminazione. Allo stesso tempo diverse strutture sono state sottoposte a puntigliosi controlli fiscali, tra queste anche Aizhixing, un’organizzazione pioniera nel campo dell’AIDS.
L’impatto dell’attacco alla Gongmeng va ben oltre la semplice chiusura dell’organizzazione stessa. Questa lega di avvocati era arrivata a rappresentare un vero e proprio simbolo della coscienza civica della Cina di oggi e la sua fine ha costituito un trauma notevole per tutti coloro – attivisti, giornalisti, accademici o semplici cittadini che fossero – che avevano creduto nella possibilità di una trasformazione pacifica della società. Come ha affermato Zhang Zhiqiang, leader di un organizzazione della società civile che si occupa dei diritti dei lavoratori migranti: “Dopo lo scoppio del caso Gongmeng, abbiamo perso qualsiasi senso di sicurezza. D’altra parte però abbiamo cominciato a pensare che se deve succedere qualcosa, succederà e basta, non posso fare nulla per evitarlo. In questo modo posso lavorare più tranquillamente”. Non tutti però si sono lasciati intimidire. Hao Jingsong, un avvocato in prima linea in diversi casi di interesse pubblico, ad esempio ha commentato in questo modo l’accaduto: “Un attacco del genere avrà due tipi di conseguenze: da un lato fungerà da deterrente, spaventando molte persone; dall'altro produrrà una coscienza d'opposizione molto accesa. Dal momento che la Gongmeng era un'organizzazione pacifica e non violenta, se il governo non accetta neppure questo tipo di organizzazione, molte persone inizieranno a dire che in Cina un cambiamento pacifico non è possibile e questo è molto pericoloso”. In un modo o nell’altro, quanto accaduto nell’estate del 2009 rappresenta un punto di svolta nella dialettica tra governo e società civile, anche se è ancora troppo presto per valutare la portata del cambiamento.

3.

La mobilitazione della società civile cinese di oggi non passa solamente attraverso forme associative classiche come le organizzazioni non governative, realtà strutturate e quindi rigide e vulnerabili, ma soprattutto attraverso il web, uno strumento per certi versi caotico, ma dotato di una dinamicità e resilienza senza precedenti. Negli ultimi anni la diffusione della rete ha portato allo sviluppo di una forza sociale completamente nuova e molto potente, quella che in Cina viene definita “popolo della rete” (wangmin). Se ci si limita a prendere in considerazione le cifre, stando all’ultimo rapporto del China Internet Network Information Center, alla fine di giugno del 2009 gli utenti di internet in Cina erano oltre 348 milioni, un incredibile balzo in avanti rispetto ai 620.000 registrati alla fine di ottobre 1997, la prima data per cui sono disponibili delle statistiche relativamente attendibili. Questo dato numerico, per quanto impressionante, tende a nascondere ben più importanti dinamiche sociali sottostanti, in particolare il ruolo della rete nel mobilitare la società civile cinese e nell’influenzare le decisioni della sfera politica.
Negli ultimi mesi si è parlato spesso del caso di Deng Yujiao, la pedicure di un albergo di Badong, nella provincia dello Hubei, che nel maggio del 2009 ha ucciso a coltellate un funzionario locale e ferito un suo sottoposto per difendersi da un tentativo di violenza sessuale. Inizialmente la donna è stata accusata di omicidio, ma la mobilitazione del “popolo della rete”, che in Deng Yujiao aveva visto un simbolo della lotta ai funzionari corrotti, ha fatto sì che l’accusa venisse cambiata in attacco premeditato e che il caso si chiudesse in tutta fretta, con il rilascio l’imputata sulla base di un suo presunto disturbo della personalità. Al di là della questione, per alcuni versi inquietante, della malleabilità degli organismi giudiziari cinesi di fronte alle pressioni dell’opinione pubblica, il caso di Deng Yujiao è stato interpretato da più parti come un punto di svolta per la società civile cinese, per la prima volta consapevole delle proprie potenzialità. In realtà, anche se è stato allora che molti hanno cominciato ad interrogarsi sul ruolo della rete nella Cina di oggi, sono già alcuni anni che i cittadini cinesi si servono del web come strumento per supplire alle carenze del sistema politico in termini di rappresentanza, partecipazione e supervisione.
Se proprio è necessario individuare un momento di svolta nel processo di maturazione del rapporto tra la società civile cinese e lo strumento della rete, questo potrebbe a maggior ragione essere il 2007. Quando alla fine dell’anno il settimanale Nanfang Zhoumo ha lanciato il suo consueto sondaggio on-line per scegliere i personaggi dell’anno, ben tre dei primi quattro classificati erano cittadini che in un modo o nell’altro si erano serviti della rete per ingaggiare un dialogo con il mondo politico. In prima posizione si trovavano i cittadini di Xiamen, città costiera della provincia del Fujian, che tra maggio e giugno si erano mobilitati con successo contro la decisione dall’alto di creare un impianto chimico altamente inquinante nella periferia cittadina. Allora il passaparola tra la popolazione locale era avvenuto principalmente attraverso SMS, ma internet aveva giocato un ruolo fondamentale, tanto che sui forum locali come quello dell’Università di Xiamen i post relativi al problema registravano decine di migliaia di visitatori. Tralasciando per un momento la seconda posizione, al quarto posto invece c’erano i genitori alla ricerca dei figli scomparsi nelle fornaci clandestine. Solamente quando la zia di un ragazzo che questi genitori avevano salvato da una fornace aveva deciso di esprimere la propria gratitudine e aveva pubblicato su un forum provinciale un post in cui denunciava la loro sofferenza, nell’intero paese si è scatenata una tempesta mediatica che ha spinto il governo centrale a lanciare una durissima offensiva contro i trafficanti di esseri umani e la schiavitù.
Ancora più significativo è il fatto che in seconda posizione nella classifica si trovasse il “popolo della rete” stesso, premiato in virtù del suo ruolo in un caso che aveva coinvolto il governo provinciale dello Shaanxi e, letteralmente, una “tigre di carta”. In sostanza, per ottenere un consistente stanziamento statale per la creazione di un’area naturale protetta per una specie di tigre da tempo estinta, l’ufficio ambientale dello Shaanxi aveva addotto come prova della presenza dell’animale nella zona una foto palesemente fasulla scattata da un contadino del posto. In quell’occasione, il popolo della rete non solo aveva dimostrato come la tigre nella foto in realtà non fosse altro che un disegno tratto da un calendario lunare messo tra il fogliame e ritoccato al computer, ma aveva attaccato duramente le autorità locali, spingendole prima a smentire l’autenticità dell’immagine, poi a prendersi la responsabilità per la tentata truffa. In conclusione, non solo il contadino che aveva scattato la foto è stato arrestato, ma almeno tredici funzionari hanno perso il posto o sono stati puniti.
Negli ultimi anni dunque la rete si è dimostrata uno strumento fondamentale nella dialettica tra governo e società civile in Cina. Eppure anche in questo caso la preoccupazione degli ambienti ufficiali è palpabile. Quando nel 1978 prese piede il movimento del “muro della democrazia”, studenti, intellettuali, ma anche semplici cittadini e lavoratori cominciarono ad incontrarsi a Xidan, in centro a Pechino, per condividere gli uni con gli altri i propri pensieri e i propri ideali, spesso criticando i limiti del sistema politico in cui si trovavano a vivere. Le autorità in un primo periodo provarono a cavalcare l’onda di quell’embrione di opinione pubblica, nel tentativo di porre fine alle lotte interne, ma una volta che la situazione politica si fu stabilizzata non esitarono a ricorrere all’arma della repressione. Se si considera la preoccupazione che allora era stata scatenata da appena qualche decina (o centinaio) di migliaia di partecipanti, si può facilmente immaginare l’apprensione della classe politica cinese nei confronti della rete, quello che potenzialmente può essere definito il “muro della democrazia” del ventunesimo secolo, una bacheca i cui spettatori nella sola Cina si contano nell’ordine delle centinaia di milioni.

4.

Tutto ciò dimostra come in Cina esista una dialettica tra Stato e società civile ben più complessa di quanto comunemente non si creda. Per quanto non esiti a ricorrere alla forza nel soffocare realtà che sfuggono al suo controllo, il governo cinese non è un colosso impermeabile al sentire della società civile ma, al contrario, quando viene messo sotto pressione, si rivela disponibile a fare significative concessioni, a patto che non venga messa in discussione la sua legittimità politica. Per converso, la società civile della Cina di oggi è una realtà vivace e dinamica, con una vena critica molto più diffusa di quanto non venga percepito all’esterno. Certo, rimane ancora molto da fare, ma è pur sempre un gran cambiamento rispetto all’epoca in cui tutti indossavano la divisa alla Mao e si chiamavano compagni.