lunedì 12 ottobre 2009

Reportage: turismo rosso


Scusandomi ancora una volta per il mio prolungato silenzio, qui di seguito riporto la versione integrale di un reportage sul “turismo rosso” che ho avuto modo di pubblicare sul Venerdì di Repubblica un paio di settimane fa.



Su uno dei sedili posteriori dell’autobus che dalla città di Changsha porta i turisti a Shaoshan, il villaggio natale di Mao Zedong, siede un signore di mezza età, il volto celato da un giornale. Sono passati oltre quarant’anni dall’ultima volta che Fan Jing ha percorso questa strada per rendere omaggio al grande timoniere. Allora la Cina era nel pieno della Rivoluzione Culturale e lui non era altro che un adolescente che, come tanti altri, si era unito con entusiasmo alle guardie rosse, i giovani rivoluzionari che all’epoca imperversavano per il paese.

Mentre fuori dal finestrino scorre un paesaggio di colline bruciate dal sole e risaie, Fan Jing, che ora è professore in uno degli atenei della capitale, rievoca la sua adolescenza: “La Rivoluzione Culturale non è stata solamente distruzione. Per noi giovani è stata innanzitutto una grande occasione, perché in quegli anni potevamo viaggiare a piacimento per tutto il paese, senza dover pagare alcunché. Bastava sventolare un libretto rosso e le macchine si fermavano per darti un passaggio, treni e autobus erano completamente gratuiti”.

E’ stato grazie alla Rivoluzione Culturale che un’intera generazione di cinesi, quella nata nella prima metà degli anni Cinquanta, ha imparato a conoscere e ad amare i luoghi simbolo della rivoluzione comunista. Allora il culto della personalità di Mao era alle stelle, il Partito controllava ogni aspetto della vita degli individui e visitare queste mete – il villaggio natale del grande timoniere, le basi della guerriglia comunista negli anni Venti e Trenta, le città che per prime si erano ribellate al controllo dei nazionalisti – assumeva il valore di un vero e proprio pellegrinaggio religioso.

Oggi, a quarant’anni di distanza, le cose sono molto cambiate. L’esperienza storica che alcuni, semplificando, indicano come “maoismo” sembra essere stata definitivamente relegata al passato, mentre è emersa una società sempre più materialistica, disomogenea e competitiva. Eppure, nonostante questa nuova Cina devota al mercato sembri lasciare poco spazio al mito del grande timoniere, tutti i luoghi classici del comunismo cinese ogni anno continuano ad attirare un numero enorme di visitatori: studenti, pensionati, funzionari, comuni lavoratori, persone di ogni strato sociale e di ogni età che, novelle guardie rosse, sperano di sperimentare almeno un briciolo dello spirito della rivoluzione vissuta dai loro genitori o dai loro nonni. Ovviamente a pagamento.

Il “turismo rosso” negli ultimi anni è diventato un vero e proprio fenomeno di massa, un giro d’affari imponente che ha cambiato l’aspetto di più di un luogo. A Shaoshan ad esempio il cambiamento è arrivato a partire dal 1993, quando in occasione delle celebrazioni per il centenario della nascita di Mao al centro del paese è stata edificata una piazza, uno spazio che con un insolito slancio di fantasia è stato battezzato “Piazza Mao Zedong”. A un’estremità della piazza, una statua di Mao alta sei metri accoglie ieraticamente i pellegrini, in fila per posare delle corone di fiori ai piedi del piedistallo. Lo stand delle corone non è molto lontano e, stando a quanto racconta la gente del posto, gli affari vanno molto bene: ogni giorno vengono vendute tra le due e le trecento ghirlande, ognuna delle quali costa una somma compresa tra i venti e i cento euro. A fianco, un altro stand offre un servizio di fotografie per i turisti, non tutti abbastanza ricchi da potersi permettere una propria macchina fotografica. Alcuni però non sono soddisfatti di questi sviluppi. Ai margini, un giovane contadino del posto che da qualche tempo si è improvvisato fotografo per i turisti si sfoga: “Quello stand è gestito da conoscenze di alti papaveri, solo i loro fotografi sono autorizzati a fare le foto ai visitatori. Mao non è una grande fonte di guadagno per noi del popolo, solamente per chi sta in alto”.

A differenza di quanto accade nelle altre mete del turismo rosso, a Shaoshan lo sviluppo economico non è ancora riuscito ad offuscare la dimensione religiosa del pellegrinaggio maoista. Lo spettacolo è impressionante: cinesi più o meno giovani che uno dopo gli altri si inchinano ai piedi del simulacro del grande vecchio, chiudono gli occhi, congiungono le mani e pregano. “Il popolo onora Mao come un dio, anzi, più che un dio”, spiega Zhou Xinhua, un giovane contadino del posto, uno dei tanti che hanno abbandonato i campi per guidare moto-taxi, fotografare o vendere souvenir nel tentativo di sfruttare l’ondata di turisti che ogni giorno si riversa nella zona. “Io stesso ogni mattina mi inchino davanti alla statua del presidente per chiedergli di preservare la pace della mia famiglia”, racconta, “tutte le persone che vengono qui hanno qualche favore da chiedergli, qualche desiderio da esaudire”. Ma succedono mai dei miracoli? Zhou sembra non avere dubbi: “Non accade spesso, ma ci sono stati dei casi”. Al suo fianco un altro giovane scherza: “Il presidente anche adesso è troppo impegnato, non ha il tempo di rispondere a tutti”.

A volte il “turismo rosso” non è altro che uno strumento per educare le nuove generazioni di cinesi, cresciute nella bambagia della Cina del miracolo economico, allo spirito di sacrificio dei loro progenitori. Infatti, parafrasando una celebre massima di Mao, si può affermare che la rivoluzione cinese non è stata certo un pranzo di gala. “Siamo venuti qui in vacanza per vedere di persona i luoghi della rivoluzione e comprendere meglio la forza e il coraggio di coloro che hanno combattuto per costruire la nuova Cina”, racconta una coppia di funzionari statali sulla quarantina proveniente della provincia del Guizhou. Essi fanno parte di un gruppo turistico in visita sui monti Jinggangshan, ex-base comunista degli anni Venti situata nella provincia del Jiangxi, qualche centinaio di chilometri a sud-est di Shaoshan. E il loro figlio sedicenne? “Ha preferito rimanere a casa a navigare su internet. Non gli andava davvero di muoversi”, sospirano.

Miglior fortuna ha avuto la signora Hui Min, una donna sulla quarantina originaria di Shanghai, che senza troppi sforzi è riuscita a convincere l’intera famiglia – suocero, marito, figlio e nipote – a seguirla sui monti Jinggangshan sulle tracce della rivoluzione. “Ho pensato: i monti Jinggangshan sono un posto bellissimo dal punto di vista naturale, in più i ragazzi possono imparare qualcosa di utile. Perché non venirci in viaggio?”, racconta. Spiega di essere molto preoccupata per il decadimento morale della nuova generazione di giovani: “A causa della politica del figlio unico, i ragazzi di oggi crescono come piccoli imperatori, sono davvero egoisti. Vorrei che mio figlio venendo qui potesse assorbire qualcosa dello spirito della rivoluzione”. Donna pragmatica, solamente nel 2001 è entrata nel Partito Comunista: “All’epoca mi sono resa conto che nella mia unità di lavoro, una grande impresa statale, c’erano moltissimi membri del Partito e mi sono detta: perché no? Alla fine si è rivelata una buona scelta”.

Sulle strade del turismo rosso a volte capita di fare incontri inaspettati. E così può succedere che un mattino di buon’ora, ai piedi di una stele commemorativa eretta nella località di Huangyangjie per commemorare una storica battaglia avvenuta nell’estate del 1928, ci si imbatta in un folto gruppo di persone tra i trenta e i cinquant’anni, molti sovrappeso, tutti nella divisa militare che i guerriglieri rossi usavano indossare nei lontani anni Venti. Sembrerebbe una rievocazione storica ad uso e consumo dei turisti e invece da una bandiera portata a spalla da uno dei “soldati” si apprende che si tratta di una serissima “sessione di addestramento sul Jinggangshan” riservata ad un gruppo di quadri del Partito provenienti dalla capitale. Ai piedi del monumento un oratore, un uomo anziano, figlio di personaggi di spicco che hanno preso parte alla rivoluzione, quella vera, avvia la sua arringa sullo spirito rivoluzionario del Jinggangshan, mentre fiumi di sudore iniziano a scendere dalle facce del plotone schierato di fronte a lui. Probabilmente il fatto di indossare un’uniforme completa in pieno agosto è una parte fondamentale del processo di formazione di un vero rivoluzionario.

Shaoshan e i Jinggangshan sono solamente due delle innumerevoli mete del turismo rosso in Cina. In questo paese praticamente ogni luogo può contare su qualche martire, qualche dramma, qualche storia legata in un modo o nell’altro ai quasi trent’anni di lotta che il Partito Comunista ha impiegato per raggiungere il potere. A sessant’anni esatti dalla fondazione della Repubblica Popolare, un fenomeno come quello del turismo rosso sembrerebbe rappresentare l’esigenza di parte della società cinese di riscoprire i valori rivoluzionari di cui hanno sentito parlare sui banchi di scuola: frugalità, solidarietà, coraggio e umiltà. Eppure, se questo poteva essere vero quarant’anni fa per i pellegrinaggi delle guardie rosse, oggi il tutto si riduce a tour frenetici con guide asfissianti, souvenir di Mao in tutte le posizioni e salse, foto ricordo in raffazzonati costumi d’epoca. Sono finiti i tempi in cui Fan Jing, la guardia rossa, poteva sventolare il libretto rosso e viaggiare gratis fino al villaggio natale di Mao: oggi in Cina tutto ha un prezzo, anche la Rivoluzione.