lunedì 8 giugno 2009

Avere una laurea e non trovare lavoro: il problema della disoccupazione intellettuale in Cina


Nello spazio sulla bacheca degli annunci ufficiali dell’Università per le lingue straniere di Pechino che solitamente viene riservato alle offerte di lavoro per gli studenti, nei giorni scorsi spiccavano un paio di fogli intitolati: “Annuncio per il reclutamento nell’esercito dei laureati della presente sessione”. In questo documento, rivolto ai laureandi che completeranno i propri studi nell’anno accademico in corso, si poteva leggere che coloro che dopo la laurea decideranno di arruolarsi per tre anni nell’esercito, al termine del servizio avranno la possibilità di godere di alcuni vantaggi, sia che decidano di trovare un lavoro negli organi pubblici a livello di base di base, sia che scelgano di riprendere i propri studi. Xiao He, una studentessa iscritta al primo anno di un master, studia con attenzione i contenuti dell’avviso: “Mi sono fermata un attimo per vedere se c’era qualche offerta di lavoro interessante, non mi aspettavo di trovare questo. Una volta l’esercito cercava di reclutare soprattutto ragazzi dalle campagne e giovani di città che non riuscivano a trovare lavoro”.

Questo annuncio è l’ennesima dimostrazione della crescente preoccupazione delle autorità cinesi nei confronti del fenomeno della disoccupazione intellettuale, un problema che solamente in anni recenti ha iniziato a piagare il paese e che lo scoppio della crisi finanziaria globale non ha fatto altro che aggravare. Come spesso accade in Cina, i numeri coinvolti sono enormi. Quando nel dicembre del 2008 gli specialisti dell’Accademia Cinese delle Scienze Sociali hanno pubblicato il loro “Libro blu”, la consueta analisi sulle tendenze della società cinese per l’anno a venire, essi stimavano che alla fine del 2008 fossero ben 1.500.000 i laureati impossibilitati a trovare lavoro e prevedevano che nel 2009 la situazione si sarebbe ulteriormente aggravata, a causa della continua crescita del numero di studenti arruolati negli istituti superiori ed universitari cinesi in un periodo in cui la crescita economica si sta visibilmente contraendo.

Se si considera il fatto che in Cina l’educazione universitaria è sempre stata riservata ad una ristretta elite di “mandarini”, come è stato possibile arrivare a questo punto? Bai Limin, docente presso l’Università di Wellington in Nuova Zelanda, non mostra dubbi nel ricondurre le radici della situazione alla crisi asiatica del 1997. Le sue ricerche hanno messo in luce come all’epoca, per evitare che una nuova ondata di studenti usciti dalle scuole superiori inondasse un mercato del lavoro già sull’orlo del collasso e, ancor più, per stimolare i consumi interni e garantire così una rapida uscita dalla crisi che allora stava lambendo il paese, le autorità cinesi avessero deciso di ampliare l’accesso all’istruzione universitaria, un processo che in cinese viene definito kuozhao. In quell’occasione, in un solo anno, tra il 1998 e il 1999, l’arruolamento universitario passò da 1.080.000 studenti a 1.537.000 studenti, registrando una crescita del 41,7%.

A partire dal 1998, di anno in anno le autorità hanno incessantemente ampliato l’accesso all’università e quello che era un sistema educativo “d’elite” si è rapidamente trasformato in un sistema “di massa”, al punto che quest’anno le università cinesi arriveranno a sfornare 6.110.000 diplomati. Eppure, come scrive Bai Limin, “le condizioni socio economiche e la struttura del sistema dell’educazione superiore in Cina non erano pronte per una crescita così rapida nelle iscrizioni nelle istituzioni terziarie”. Se indubbiamente si è trattato di una decisione epocale, di fatto essa è stata presa senza valutare attentamente le esigenze del mercato del lavoro: infatti in nessun modo l’offerta di forza lavoro che esce dalle università cinesi di oggi rispecchia quella che è la domanda da parte delle imprese, straniere o locali che siano. Come ha commentato Liu Kaiming, direttore dell’Istituto per l’Osservazione della Società Contemporanea di Shenzhen:”Questo fenomeno dimostra come attualmente i posti di lavoro in Cina si concentrino in settori ad alta densità di manodopera e a basso salario, assolutamente inadatti agli universitari”.

La stampa cinese ha contribuito in più di un modo a creare un clima d’allarme. Già nell’aprile del 2007 sulle pagine del Quotidiano del Popolo si leggeva un articolo retoricamente intitolato: “I nostri laureati dovrebbero fare gli spazzini?”. Nella seconda metà del 2008 poi sui media cinesi sono apparse molte storie relative alla sorte lavorativa dei neolaureati che hanno destato preoccupazione in più di un genitore. Innanzitutto, nel novembre del 2008 è apparsa la notizia che a Canton oltre 1.300 laureati con un master alle spalle si sarebbero presentati per un posto di lavoro come venditori di carne di maiale. In quell’occasione, anche se il salario annuale offerto era di centomila yuan e il lavoro prevedeva la vendita diretta della carne solamente nel primo periodo prima di passare a posizioni manageriali più elevate, i media hanno preso la palla al balzo per raccontare la storia di questi laureati “disperati” al punto da essere disposti a diventare macellai. Quando in dicembre un’azienda di servizi igienici di Dongguan si è presentata ad una fiera dell’occupazione nella Cina meridionale offrendo posizioni ben pagate come fognaioli a condizione di avere una laurea, grida di indignazione si sono levate sul web e sui media a difesa della “dignità violata degli studenti universitari”.

Dopo queste prime avvisaglie, sui media locali e nazionali è capitato di leggere in successione una raffica di storie del genere: universitarie impiegate come strofina-schiene nei bagni pubblici di Pechino per 58 yuan all’ora; neo-laureate desiderose di trovare un lavoro come domestiche a Shenzhen; “tartarughe d’oltremare” (un termine popolare per indicare gli studenti che decidono di tornare in Cina dopo aver conseguito un titolo di studio all’estero) impiegate come estetiste in alberghi della capitale; resse di centinaia di laureati in competizione per alcuni posti da casellanti autostradali nel Zhejiang; migliaia di giovani istruiti in lotta per qualche posto da cassiere in supermercati nella provincia dello Henan; decine di universitari pronti a ricoprire il ruolo di segretario amministrativo in un tribunale sperduto nelle campagne del Jiangsu. Tutto questo sullo sfondo di fiere dell’occupazione affollate come non mai. Il messaggio che è stato fatto passare era molto chiaro: nulla garantisce ai laureati cinesi un futuro diverso da quello di un comune lavoratore migrante.

Al di là degli allarmismi dei media, ci sono serie ragioni per cui preoccuparsi. Come ha affermato Liu Kaiming: “La vera vittima di questa crisi finanziaria in Cina non sono i lavoratori migranti, ma gli studenti universitari. La crisi ha messo in difficoltà molte imprese straniere finalizzate all’esportazione e ciò è andato a colpire molti altri settori, riducendo sensibilmente le occasioni di lavoro per loro”. Dal già citato “Libro blu” dell’Accademia Cinese delle Scienze Sociali, si apprende che già nel 2007 il tasso di disoccupazione dei neo-laureati si aggirava attorno al 12%. Di fatto, anche coloro che sono in grado di trovare lavoro hanno ben poco di cui rallegrarsi: gli ultimi dati rilasciati nei giorni scorsi dal Ministero delle risorse umane e della sicurezza sociale mostrano come circa il 70% dei giovani con istruzione superiore occupati trovi lavoro in piccole/medie imprese private, attraverso l’occupazione in proprio o con modalità di lavoro flessibile, mentre appena il 17% viene assorbito negli organi dello Stato e nelle imprese statali di grandi dimensioni. Queste ultime sono le destinazioni più ambite tra i giovani universitari cinesi, desiderosi di trovare stabilità nelle loro vite.

Le autorità cinesi hanno già elaborato alcune strategie per rimediare a questa situazione. Una prima tattica, simile alla pratica post-Rivoluzione Culturale di inviare i giovani istruiti nelle campagne, consiste nel mandare i neo-laureati a lavorare per tre anni come quadri nelle zone rurali o disagiate. Si tratta di una misura molto popolare tra gli universitari della capitale, a giudicare dal fatto che quest’anno a Pechino oltre 20.000 studenti hanno presentato la propria candidatura per appena 1.600 posti disponibili. Ma perché un giovane di oggi dovrebbe lasciare volontariamente le comodità della città e andarsene in campagna? A differenza di quanto avveniva in passato, quando l’indottrinamento politico aveva un ruolo prevalente, oggi gli incentivi sembrano essere soprattutto occupazionali. Come si scopre da un sondaggio aperto al pubblico condotto sul sito dell’agenzia ufficiale Xinhua, su 83 quadri rurali di Pechino che termineranno il proprio servizio nell’anno in corso, 41 hanno in programma di partecipare all’esame per diventare funzionari di Stato, 17 rimarranno in campagna e 12 accetteranno posizioni raccomandate dallo Stato. Simili cifre, nel loro piccolo, sembrerebbero dimostrare come la promessa di un lavoro all’interno della burocrazia statale dopo tre anni di servizio sia un elemento fondamentale nel motivare i giovani a partire per le campagne.

Una seconda strategia, già ampiamente sperimentata in occidente, consiste nel garantire una maggiore flessibilità al mercato del lavoro, un obiettivo che viene perseguito non solo attraverso l’eliminazione graduale delle barriere alla mobilità interna dovute allo hukou (il sistema di registrazione familiare, eredità dell’epoca maoista, che vincola l’individuo al suo luogo d’origine), ma soprattutto attraverso la creazione di centinaia di migliaia di posti pagati da stagista riservati ai neo-laureati. In un’intervista rilasciata lo scorso dicembre ad una rivista economica ufficiale, Hu Angang, una delle massime autorità accademiche cinesi nel campo delle politiche dell’occupazione, ha commentato: “Il nucleo della tutela dell’occupazione sta nel garantire alla gioventù dei posti di lavoro più flessibili e nello stabilire più politiche occupazionali favorevoli ai giovani”. Anche se molti specialisti guardano con favore a questa politica, ritenendola uno strumento efficace sia per alleviare la pressione sull’occupazione che per diminuire gli oneri a carico delle imprese, altri hanno obiettato che essa è in evidente contraddizione con quanto previsto dalla nuova legge sui contratti di lavoro, entrata in vigore nel gennaio del 2008, e pertanto premono perché vengano adottate adeguate misure di supporto “temporanee”. Eppure, a prescindere dall’orientamento del dibattito del mondo accademico e della società, le autorità cinesi si stanno muovendo con rapidità e decisione, tanto che a metà aprile esse hanno deciso di promulgare un piano triennale che prevede la creazione di un milione di posti pagati da stagista tra il 2009 e il 2011.

Le conseguenze della crisi saranno durevoli. Ci sono alcuni segnali che indicano come una generale sfiducia nei confronti dell’istruzione universitaria abbia già iniziato a farsi sentire tra i giovani cinesi. Dal momento che una laurea non garantisce più un posto fisso e ben retribuito, sono sempre meno i giovani disposti ad imbarcarsi in quattro faticosi anni di studi e sempre più i genitori che esitano a farsi carico di tasse scolastiche estremamente onerose. Quando qualche giorno fa le varie provincie hanno resto noti i dati relativi alle iscrizioni al gaokao (l’esame annuale di ammissione all’università) per il 2009, con un certo stupore si è avuto modo di constatare come il numero dei partecipanti abbia subito una forte flessione rispetto agli anni precedenti. Stando ai dati del Ministero dell’educazione, se tra il 2002 e il 2008 il numero di iscritti al gaokao è cresciuto ininterrottamente, passando da 5.270.000 a 10.500.000 candidati, nell’ultimo anno c’è stata una diminuzione del 3,8%, pari a 300.000 iscritti. Anche se ragioni demografiche sicuramente hanno giocato un ruolo importante in questo cambiamento di tendenza, le autorità cinesi non possono non considerare con preoccupazione questo nuovo sviluppo, tanto più che alcune province hanno registrato un vero e proprio tracollo, in alcuni casi superiore al 10%, in particolare lo Shandong e lo Henan, che hanno perso rispettivamente circa 80.000 e 29.000 iscritti.

Il punto è che le politiche adottate dal governo cinese non attaccano il nocciolo della questione, ma si limitano semplicemente a rimandare nel tempo la soluzione del problema. I giovani vengono convinti a partire per le campagne, a prestare il servizio militare, a proseguire gli studi con un master o un dottorato, ma cosa succederà tra qualche anno, quando questi ragazzi, ormai vicini alla trentina, si riverseranno in massa sul mercato del lavoro? La capacità del governo di creare nuovi posti di lavoro nell’apparato statale è limitata e, per quanto sia lecito sperare che un miglioramento della situazione economica porti alla creazione di un numero sufficiente di nuovi posti di lavoro, il rischio di un deterioramento dell’ordine pubblico è molto concreto. Se per ora sembra che i laureati cinesi non ritengano il governo responsabile di questa situazione, nessuno può prevedere gli sviluppi futuri, specialmente nel caso in cui la disoccupazione intellettuale dovesse legarsi ad altre problematiche sensibili quali l’aumento dei prezzi, la corruzione ufficiale e lo sfruttamento del lavoro, come già è avvenuto alla fine degli anni Ottanta. Di fatto, in un’epoca di crisi essere giovani ed avere una laurea non è di grande aiuto. Neppure in Cina.

2 commenti:

  1. Grande pezzo Ivan, complimenti. Mi permetto di allegarti questo video http://online.wsj.com/video/unemployed-chinese-graduates-worries-government/5F226B06-8DD9-4D6B-B941-09353198E868.html come piccolo supporto a ciò che hai scritto.

    Saluti

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  2. ...ho capito male il post, o ci si sta avviando sempre di più verso la precarizzazione dei lavoratori? E - se ciò è vero - secondo te una precarizzazione su vasta scala non renderebbe più difficile mantere alti i livelli del PIL?

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