lunedì 6 aprile 2009

Reportage da Shenzhen: Cercare lavoro in un’epoca di crisi



Mi scuso per il mio lungo silenzio: d'ora in poi cercherò di aggiornare il blog con maggior frequenza. Qui di seguito riporto la bozza di un reportage sull'impatto della crisi economica sui lavoratori migranti che ho scritto nella seconda metà di febbraio mentre mi trovavo a Shenzhen per lavoro
. Non mi dispiacerebbe ricevere qualche commento.


“State subendo l’influenza della tempesta finanziaria? Il padrone è scappato e non vi ha pagato i salari arretrati? Siete stati costretti a smettere di lavorare, siete stati licenziati oppure vi è stato ridotto il salario? Avendo le necessarie conoscenze e proteggendo i nostri diritti possiamo superare insieme la crisi”. Queste frasi spiccano sulla prima facciata di un volantino che in questi giorni viene distribuito in migliaia di copie tra i lavoratori migranti nel distretto di Longgang a Shenzhen. Sui risvolti interni trovano spazio altre domande, seguite da spiegazioni concise ma ugualmente preziose: cosa fare se il salario viene trattenuto o non pagato? Se la fabbrica sospende le attività o indice un lungo periodo di ferie? Se il datore di lavoro decide di tagliare la manodopera? Se si viene costretti a dare le dimissioni? Se la fabbrica viene trasferita? Se il padrone scappa con tutti i soldi? Le risposte sono racchiuse in una lunga serie di articoli di legge, presentati ai lavoratori in un linguaggio semplice e chiaro. Sull’ultima facciata un riquadro evidenzia il numero di telefono degli autori: il Centro per la Salute e la Sicurezza sul Lavoro, un’organizzazione non governativa locale fondata da Huang Qingnan, un ex-lavoratore migrante di 36 anni che nel 1999 ha avuto il volto sfigurato dall’acido nel sonno a causa della gelosia di un collega.

Mentre l’attenzione del mondo si concentra sull’ondata di fallimenti che sta colpendo a catena i colossi finanziari globali, tra coloro che soffrono maggiormente le conseguenze di decisioni prese altrove vi sono milioni di lavoratori impiegati nell’industria manifatturiera del delta del Fiume delle Perle, una zona che da anni si è guadagnata l’etichetta di “fabbrica del pianeta”. “Dopo la tempesta finanziaria, proteggere i diritti dei lavoratori è diventato molto più difficile; anche fare il nostro lavoro ora è molto più difficile,” ha affermato davanti ad una tazza di tè Yu Huimin, collaboratrice di Huang Qingnan. In seguito alla crisi non solo molte fabbriche hanno chiuso i battenti oppure sono state trasferite in regioni interne in cui i costi di produzione sono più ridotti, ma il peggio è che gli standard lavorativi sono crollati anche per quei lavoratori che sono riusciti a mantenere la posizione originaria.

“Prima potevo tranquillamente trovare lavori con una paga di 1.260 yuan incluso vitto e alloggio, ora al massimo mi offrono 800 yuan di salario base, senza vitto o alloggio”, mi ha detto Li, una giovane lavoratrice migrante originaria della provincia settentrionale dello Henan. L’ho incontrata in un vicolo nei pressi dell’ex-zona industriale di Tairan, nel distretto di Futian. Lo scorso giugno la fabbrica di componenti elettronici in cui aveva lavorato per oltre sei anni è improvvisamente fallita, lasciando a casa centinaia di dipendenti. In pochi giorni Li è riuscita a trovare un nuovo impiego nello stesso settore, ma dopo sei mesi anche il nuovo impianto ha chiuso i battenti ed è stato trasferito altrove. Questa ragazza non dimostra più di vent’anni, ma in realtà ha una decade in più e due figli piccoli sulle spalle. E’ ancora piena di vitalità ed energia, come dimostra la sua risata tonante, ma avere trent’anni nella fabbrica del mondo significa essere già vecchi. “I padroni vogliono solamente ragazze con meno di venticinque anni e spesso anche se si è un possesso di un diploma di scuola superiore si viene rifiutati: come posso competere con loro?”. Quando l’ho interrogata sulle ragioni per cui lei, che ha solo un diploma di scuola elementare, si sente inferiore alle ragazze con un livello di istruzione più elevato, mi ha risposto con visibile imbarazzo: “Non lo so”.

Nella zona del delta il problema non è tanto la mancanza di lavoro, quanto il fatto che i salari sono così bassi da non bastare neppure a coprire le spese. Se dal 2006 al 2008 il salario medio dei lavoratori nella zona di Shenzhen è aumentato di oltre il 30%, passando da 2451 a 3233 yuan al mese, oggi è comune registrare contrazioni salariali del 10 o addirittura 20% rispetto ai livelli raggiunti un anno fa. Ridurre i salari dei lavoratori tuttavia difficilmente è una misura efficace per risolvere i problemi di un’impresa. Come ha commentato Yu Huimin, “i salari contano per una minima parte dei costi di produzione dell’impresa. E’ assolutamente insensato colpire gli interessi dei lavoratori per proteggere quelli dell’impresa, in primo luogo perché ciò non ha una grande utilità, in secondo luogo perché i lavoratori hanno già una vita difficile e un aumento della pressione su di loro non è altro che un nuovo fattore di instabilità”.

Una cosa che colpisce è il fatto che i lavoratori cinesi raramente parlino di “crisi”, preferendo piuttosto utilizzare un’espressione drammatica come “tempesta” (fengbao). E di una vera e propria tempesta si è trattato, come risulta evidente anche solo se ci si attiene alle cifre ufficiali. Lo scorso 2 febbraio il governo centrale in una conferenza stampa appositamente indetta ha fatto sapere quali sono le sue stime del fenomeno: in base ai dati governativi sarebbero stati oltre 20 milioni i lavoratori migranti tornati a casa in anticipo prima della Festa di Primavera a causa di problemi occupazionali, un numero pari al 15,3% del totale della popolazione migrante, che attualmente si aggira attorno alle 130 milioni di persone.

Si tratta di una cifra molto più elevata delle stime avanzate nelle scorse settimane da media e analisti, eppure alcuni ritengono ancora che potrebbe trattarsi di un calcolo troppo ottimista. Liu Kaiming, un noto specialista che lavora per l’Istituto per l’Osservazione della Contemporaneità, un’organizzazione della società civile con base a Shenzhen, così ha commentato queste cifre: “Questa è solo una stima. In base ai miei calcoli, nell’industria manifatturiera delle zone costiere circa 20 milioni di lavoratori sono tornati a casa. A questi vanno aggiunti circa 16 milioni di lavoratori del settore edile, più un numero imprecisato di persone attive nei servizi ed in altri settori, per un totale compreso tra i 36 e i 40 milioni di lavoratori. Tutti costoro torneranno in città a cercare lavoro. Penso che se i lavoratori del settore edile non faticheranno a trovare una nuova occupazione, anche grazie ai grandi progetti avviati dal governo, lo stesso non potrà dirsi per i lavoratori dei settori manifatturiero e dei servizi. Credo che nel 2009 saranno almeno 20 milioni i lavoratori migranti che non riusciranno a trovare lavoro”.

Una persona che ha ben chiaro qual è stato l’impatto della crisi sui lavoratori è Zhang Quanshou, il quale nella zona è conosciuto come il “comandante dei migranti”, un termine militaresco che fa venire in mente i “caporali” del sud Italia. Anche se sul suo biglietto da visita è scritto in rosso “Rappresentante dell’Assemblea Nazionale Popolare”, una carica che ha assunto a partire dal 2008, non bisogna lasciarsi ingannare dalla pomposità delle apparenze: egli non è altro che uno dei tanti personaggi che hanno trovato il modo di trarre profitto dall’imperfezione del mercato del lavoro cinese. Anche lui lavoratore migrante dello Henan arrivato a Shenzhen negli anni Novanta senza un soldo in tasca, una decina di anni fa ha trovato il modo di arricchirsi sulla pelle dei compaesani. Nel 2000 infatti egli ha stabilito un’azienda che si fa carico di presentare i lavoratori alle imprese: i datori di lavoro ogni mese gli versano il salario dei lavoratori e da questo egli trae il suo guadagno, intorno ai 30 yuan al giorno per lavoratore.

Zhang Quanshou mi ha ricevuto in un lussuoso ufficio sorvegliato da uomini massicci in tuta mimetica in un quartiere operaio del comune di Pinghu, nella periferia settentrionale di Shenzhen. Su una parete erano appese decine di targhe con premi, onorificenze e titoli conferitigli da vari dipartimenti governativi, sulle altre vi erano foto di lui in compagnia delle principali cariche dello Stato, dal presidente del parlamento al ministro degli esteri. L’ostentazione di potere è una caratteristica fondamentale delle persone come lui, nuovi ricchi che sono usciti dalla miseria sfruttando le debolezze e le perversioni del sistema. Abbiamo discusso degli effetti della crisi economica sulla sua attività. Prima della crisi, ogni anno circa 12.000 lavoratori passavano per la sua azienda e le prospettive erano talmente ottimistiche che egli si era posto l’obiettivo di raddoppiare il numero nel 2009. Da luglio però sono apparsi i primi problemi: le aziende della zona hanno iniziato a non volere più i “suoi” lavoratori e in alcuni casi a restituire quelli già assunti. D’altra parte, anche i lavoratori hanno smesso di riversarsi in massa nel suo ufficio: dopo la Festa di Primavera i nuovi arrivi sono stati appena 5000, la metà dello scorso anno. Molti hanno preferito rimanere a casa in attesa di ulteriori notizie.

Stando a quanto afferma Zhang, gli imprenditori della zona preferiscono assumere giovani donne tra i 16 e i 23 anni, più disciplinate e laboriose dei corrispondenti maschili. Tra gli effetti più evidenti della crisi sulla sua attività egli annovera il fatto che ultimamente, a causa dell’incertezza sugli ordini futuri, i contratti di lavoro stipulati non superano mai i tre mesi di durata, contrariamente a quanto avveniva in precedenza, quando era normale firmare accordi annuali. Invece, contrariamente a quanto si pensa comunemente, egli sostiene di non aver avvertito alcuna influenza della crisi sui salari, i quali, a suo dire, sarebbero rimasti immutati rispetto agli anni precedenti. Riguardo al futuro ha commentato: “In aprile o maggio sicuramente ci sarà nuovo lavoro, altrimenti il mondo intero non funzionerà più”.

Paradossalmente, la crisi finanziaria ha colpito i lavoratori cinesi proprio nel momento in cui le speranze di innalzare i loro standard lavorativi erano all’apice. Solamente nel 2008 infatti in Cina sono entrate in vigore ben tre nuove leggi che toccano questioni fondamentali per la classe operaia cinese, come l’occupazione, la risoluzione delle dispute sul lavoro e i contratti lavorativi. In particolare, la nuova Legge sui contratti di lavoro ha suscitato grandi speranze nei lavoratori e nella società civile, stabilendo per la prima volta meccanismi efficaci per garantire la stipulazione di contratti in forma scritta ed imponendo ai datori di lavoro l’obbligo di stipulare contratti a tempo indeterminato in alcune precise circostanze, tra cui spicca la maturazione di dieci anni consecutivi di anzianità in una stessa impresa. La crisi finanziaria ha posto fine, almeno per ora, a tutte le prospettive di miglioramento in questo senso.

Come mi ha raccontato Hua Haifeng, attivista dell’Associazione dei Lavoratori Migranti, un’organizzazione non governativa locale che si occupa di garantire consulenza legale gratuita ai lavoratori migranti nel distretto di Bao’an a Shenzhen, i primi mesi del 2008 hanno visto un aumento esponenziale nel numero dei lavoratori che, forti della nuova legislazione, decidevano di intraprendere la via giudiziaria nei confronti dei propri datori di lavoro, ma sin dalla fine della scorsa estate c’è stata una brusca inversione di tendenza. Da dati interni dell’Associazione dei Lavoratori Migranti, è possibile constatare come le richieste di consulenza abbiano avuto un picco nell’aprile del 2008 con 90 casi, mentre nell’ottobre dello stesso anno il numero sia sceso ad appena 14. In altre parole, secondo Hua Haifeng, sono sempre meno i lavoratori che osano alzare la voce contro i “padroni”: i posti di lavoro sono pochi, la competizione è troppa e quello che prima risultava inaccettabile è tornato ad essere accettabile.

Queste cifre tuttavia difficilmente possono essere considerate rappresentative: sono infatti molti i lavoratori che per risolvere i propri problemi decidono di rivolgersi agli avvocati gratuiti messi a disposizione dallo Stato oppure ad improvvisati “rappresentanti civili” (gongmin daili) che, pur essendo sprovvisti della licenza di avvocato, promettono miracoli per pochi soldi. Eppure, anche se è difficile avere numeri certi sull’impatto della crisi sul numero delle dispute sul lavoro, si può essere certi del fatto che l’acquiescenza dei lavoratori cinesi non durerà a lungo. La massima di Mao “basta una sola scintilla per incendiare la prateria” non è mai stata valida quanto oggi. Di fronte ad una disoccupazione così diffusa, è sufficiente un piccolo incidente, una morte sospetta per mano di poliziotti troppo zelanti, perché si scateni il finimondo. Un caso che qualche giorno fa ha coinvolto la DeCoro, un’impresa italiana che occupa una posizione di primo piano nel mercato mondiale dei divani in pelle, è un chiaro esempio della precarietà della situazione.

Dodici anni or sono la dirigenza della DeCoro, cedendo alle lusinghe d delocalizzazione produttiva in Cina, ha deciso di aprire un grosso impianto industriale destinato esclusivamente all’esportazione nell’area di Pingshan, nel distretto di Longgang a Shenzhen. Pur adottando una politica salariale relativamente favorevole ai lavoratori (i salari degli operai infatti variavano dai 2000 ai 2500 yuan, ben al di sopra della media locale), negli anni scorsi si sono registrati diversi episodi che hanno lasciato un diffuso malcontento tra i dipendenti, il più noto dei quali è avvenuto nel dicembre del 2005, quando i media di tutto il mondo hanno riportato la notizia di una vera e propria sollevazione popolare nata dal pestaggio di alcuni ex-lavoratori da parte dei supervisori stranieri. Stando alla testimonianza di Xu Long, un avvocato che negli ultimi mesi è stato contattato da diversi lavoratori della DeCoro, un altro grave incidente si sarebbe verificato nel marzo del 2008, quando 1784 dipendenti hanno deciso di ricorrere alla legge per richiedere il pagamento degli straordinari non corrisposti. In seguito, ulteriori dispute sarebbero sorte a causa del persistente rifiuto dei dirigenti di rispettare gli obblighi imposti dalla nuova legislazione in merito alla stipulazione di contratti a tempo indeterminato per i dipendenti con dieci anni di anzianità.

Dalla metà di gennaio del 2009 i media cinesi hanno ricominciato a prestare attenzione a quanto avveniva nell’impianto DeCoro di Shenzhen. A causa di una drastica diminuzione del volume degli ordini, dall’ottobre del 2008 l’azienda infatti ha cominciato ad avere seri problemi finanziari, cosa che nei mesi di novembre e dicembre ha portato al mancato pagamento dei salari ai 2239 dipendenti. Dopo alcuni infruttuosi tentativi di mediazione da parte del governo locale, conclusisi con non mantenute promesse di pagamento, e dopo uno sciopero generale del personale il 9 gennaio, il 15 gennaio Luca Ricci, responsabile dell’azienda, ha pensato bene di sparire nel nulla insieme al resto del personale straniero, lasciando che fossero le autorità cinesi a sbrigarsela con i lavoratori infuriati. “Non l’avrei mai immaginato, nessuno pensava che il padrone fosse una persona di quel tipo. Molti lavoratori ancora oggi sono convinti che lui tornerà, io stessa ho sognato che lui tornerà presto”, ci ha detto Chun, una donna di trent’anni che ha lavorato nell’amministrazione della DeCoro per otto anni. Ora lei e il marito, anch’egli ex-dipendente della stessa azienda, sono a casa senza un lavoro, preoccupati su come tirare avanti con una figlia piccola di due anni. Di fronte ad oltre duemila persone inferocite, Il governo locale non ha potuto far altro che corrispondere parte dei salari arretrati, per un totale di 10.958.580 yuan, quasi 1.300.000 euro all’attuale tasso di cambio. “Un caso come questo è ben rappresentativo di quanto sta avvenendo in questi giorni”, ha commentato l’avvocato Xu Long.

La preoccupazione degli ufficiali per il pericolo che il paese precipiti nell’instabilità sociale è palpabile. Il 17 febbraio la dirigenza della Federazione Nazionale dei Sindacati Cinesi, l’unico sindacato ufficiale nella Repubblica Popolare, un colosso dai piedi d’argilla con più di duecento milioni di membri, ha lanciato un avvertimento per bocca di Sun Chunlan, la vice-presidente: “Nella situazione attuale è necessario stare in guardia nei confronti di forze ostili interne ed esterne al paese pronte ad approfittare della situazione di difficoltà di alcune imprese per infiltrarsi nella schiera dei lavoratori migranti e causare danni”. Sullo sfondo, presenza invisibile ma chiaramente percepibile, vi è lo spettro del 1989. Allora un’inflazione galoppante, unita ad una grave disoccupazione e ad un diffuso malcontento per la corruzione degli apparati dirigenti aveva portato allo scoppio delle imponenti manifestazioni per la democrazia poi sfociate nel massacro del 4 giugno a Tiananmen.

Interrogato sulla possibilità che si verifichi una situazione analoga a quella di allora, Liu Kaiming ha affermato: “A differenza di vent’anni fa, ora il Partito Comunista ha tre carte a disposizione: la prima è quella di stralciare le politiche discriminatorie per la popolazione migrante, garantendo un accesso universale alla previdenza sociale; la seconda è quella di instaurare un sistema assolutamente trasparente per la gestione delle finanze pubbliche, riducendo lo scontento popolare derivante dalla corruzione diffusa; la terza è quella di riabilitare il movimento democratico del 1989, placando in questo modo l’insoddisfazione degli intellettuali. Escludo categoricamente che il Partito possa reagire come ha reagito allora”.

Il governo cinese effettivamente sta già giocando la sua prima carta. Ultimamente i media cinesi continuano a riportare notizie di sussidi di disoccupazione per i lavoratori migranti varati in tutta fretta dai governi locali, di nuovi regolamenti che prevederebbero l’instaurazione di un sistema pensionistico unificato su scala nazionale, di colossali progetti di rioccupazione avviati dalle provincie, il tutto sullo sfondo dell’imminente approvazione della prima Legge sulla previdenza sociale della Repubblica Popolare Cinese. L’obiettivo finale è quello di riformare rapidamente il sistema previdenziale in modo che la popolazione migrante non sia più esclusa dai benefici della spartizione della ricchezza dello Stato. Nella Cina di oggi infatti essere privi della residenza locale (in cinese hukou) è fonte di profonde discriminazioni. Le persone prive dello hukou cittadino non sono intitolate a ricevere alcuna assistenza statale sul posto: non godono di assistenza sanitaria gratuita, per mandare a scuola i propri figli devono pagare rette molto salate, in caso di difficoltà economiche o occupazionali non percepiscono sussidi di alcun tipo e via dicendo. Solamente concedendo ai migranti un trattamento previdenziale adeguato, sarà possibile garantire una loro permanenza nelle città anche nei momenti più difficili, evitando fluttuazioni nella disponibilità di manodopera pericolose sia per il mercato che per la stabilità sociale.

E’ ancora presto per esprimere una valutazione sull’impatto della crisi economica sui lavoratori cinesi. Contrariamente a quanto potrebbero far pensare le cifre catastrofiche fornite dai media e dalle fonti ufficiali, la vita nelle città del delta sembra procedere tranquilla, senza segni troppo evidenti dell’attuale ondata di disoccupazione, a parte forse il fatto che i mercati della forza lavoro e le fiere dell’occupazione sono sempre più affollati. Il panorama della fabbrica del mondo in quest’epoca di crisi appare estremamente complesso, contraddittorio e a tratti paradossale: se da un lato infatti ci sono molti lavoratori che si lamentano di avere difficoltà a trovare un buon lavoro, dall’altro ci sono ancora imprenditori che affermano di avere problemi a trovare lavoratori disposti a lavorare per loro. A prima vista, non sembrano esserci segni di tensione sociale: i lavoratori cercano lavoro giorno dopo giorno, reinventandosi strade e strategie di sopravvivenza sempre nuove, il tutto con infinita pazienza. Nel caso in cui la loro ricerca fallisca, essi non hanno altra scelta che tornare nelle campagne per attendere insieme ai famigliari la fine di questa “tempesta”. Se qualcuno si aspetta di vedere orde di disoccupati sui bordi delle strade, non le troverà. Alcuni sostengono che sarà necessario aspettare almeno il mese di maggio, quando le aziende riceveranno i nuovi ordini dai loro clienti, per vedere i veri effetti della crisi. Per ora in città e nelle campagne tutto tace, in silenziosa e trepidante attesa.

2 commenti:

  1. ottimo articolo secondo me, peccato -con tutto il rispetto- se resta solo su questo blog..

    RispondiElimina
  2. d'accordo con anonimo, e' veramente un peccato che non ci sia uno straccio di giornale italiano disposto a pubblicare un articolo cosi' chiaro e di semplice lettura, che spiega benissimo la situazione in cina...ma si conoscono i giornali italiani...

    RispondiElimina