martedì 19 maggio 2009

Vent'anni fa su quella piazza i lavoratori...


Sono passati esattamente vent’anni da quel giorno del 1989 in cui il primo ministro Li Peng, un falco all’interno della burocrazia del Partito, riuscì ad imporre la legge marziale, ponendo fine a settimane di esitazioni e di segnali contraddittori da parte della leadership cinese. Fu allora, il 19 maggio del 1989, che si cominciò a presagire la piega che avrebbero preso gli eventi, poi culminati in quello che è passato alla storia come il ”massacro del quattro giugno”.

Contrariamente a quanto si pensa comunemente, vent’anni fa su quella piazza non c’erano solamente studenti ed intellettuali, ma anche un gran numero di lavoratori, membri di quell’”aristocrazia operaia” delle industrie di Stato che da decenni costituiva la base stessa del potere del Partito. Ad un certo punto, in particolare nella seconda metà di maggio, la componente operaia del movimento sembrò addirittura prendere il sopravvento su quella studentesca, mentre imponenti manifestazioni prendevano luogo nella capitale a sostegno degli studenti impegnati nello sciopero della fame.

I lavoratori scesero in piazza per ragioni differenti da quelle degli studenti e non riuscirono mai a guadagnarsi la piena accettazione di questi ultimi, giovani preoccupati in parte per una presunta “purezza” del loro movimento, in parte per l’enorme rischio politico che un’alleanza con i lavoratori avrebbe comportato di fronte ad un Partito angosciato dallo spettro di una nuova rivoluzione. I lavoratori piantarono le loro tende fuori dai confini della piazza, separati fisicamente e simbolicamente dal centro del potere e della propaganda degli studenti. Crearono la loro stazione radio, distribuirono volantini, si offrirono di lanciare scioperi e manifestarono in ogni modo il proprio supporto agli studenti. Una volta che tutto fu finito, furono loro a pagare le conseguenze più dure della repressione.

Anche il sindacato ufficiale cinese, la Federazione Nazionale dei Sindacati Cinesi, un colosso dai piedi d’argilla che oggi conta oltre duecento milioni d’iscritti, all’epoca decise di prendere posizione a favore del movimento per la democrazia. C’è chi sostiene addirittura che la decisione di proclamare della legge marziale sia nata dal fatto che la dirigenza della Federazione era sul punto di lanciare uno sciopero generale per il 20 maggio, un evento senza precedenti nella Cina comunista. In ogni caso, la storia dimostra come in ogni periodo di crisi economica o politica il sindacato ufficiale cinese cerchi di alzare la voce e di allontanarsi dal Partito, rivendicando quel ruolo di rappresentante della classe operaia che in tempi ordinari gli viene negato.

Per unirmi al coro delle voci che in questi giorni stanno pubblicando commenti e testimonianze per commemorare i fatti di allora, qui di seguito riporto uno stralcio di un mio studio inedito sulla storia dei rapporti tra Partito e sindacato nella Repubblica Popolare Cinese. Per ricordare che vent’anni fa su quella piazza non c’erano solo gli studenti.

Nonostante tutti i dati disponibili dimostrino come il livello di vita della classe operaia alla fine degli anni Ottanta fosse nettamente cresciuto rispetto al 1978, con i salari reali praticamente raddoppiati e un forte aumento nei consumi, il morale dei lavoratori cinesi rimaneva molto basso, così come la loro fiducia nelle riforme. Jackie Sheehan, autrice di un celebrato volume sulla storia del movimento dei lavoratori nella Cina Popolare, ha individuato quattro ragioni fondamentali per questa insoddisfazione: in primo luogo, la rottura della ciotola di riso di ferro, il modello occupazionale a vita che in quella particolare fase storica veniva iniziato ad essere bollato come una “deviazione del socialismo”; in secondo luogo, l’enfasi sul management scientifico e sull’autorità del direttore di fabbrica, sulla scia del modello delle Zone Economiche Speciali recentemente stabilite; in terzo luogo, un diffuso senso di insicurezza, sorto in seguito allo smantellamento del sistema del welfare e alla crescente consapevolezza tra i lavoratori del fatto che la crescita dei prezzi dovuta alle nuove politiche economiche non sarebbe stata accompagnata da una crescita dei salari; infine, la corruzione del management e l’aumento del divario tra il trattamento del personale manageriale e quello dei comuni lavoratori.

A partire dal 1986 un’inflazione galoppante (la media tra il 1985 ed i 1988 fu del 12,1%, con un picco del 20,7% nel 1988), iniziò ad erodere i salari reali, diventando una causa di notevole malcontento nei confronti della classe politica, in base ad una teoria popolare, che ebbe notevole presa sui lavoratori, in cui l’inflazione veniva correlata alla corruzione. I lavoratori cinesi sempre più spesso si trovavano a confrontare la situazione descritta nei documenti ufficiali, ove essi erano tuttora definiti i padroni dell’impresa e dello Stato, con una realtà nella quale erano sottoposti ad un pesante sfruttamento. Peggio ancora, il fatto che la manna promessa dalle riforme tardasse ad arrivare causava un forte senso di delusione tra i cittadini, a dispetto del fatto che le condizioni di vita materiali fossero oggettivamente migliorate.

Il pretesto per l’avvio del movimento democratico della primavera del 1989 fu la morte improvvisa dell’ex segretario generale del Partito Hu Yaobang, il quale nel gennaio del 1987 era stato sollevato dal suo incarico per aver esercitato una leadership troppo permissiva nei confronti dei disordini studenteschi scoppiati nel paese alla fine del 1986. Nonostante Hu fosse stato estromesso dal potere, egli era rimasto nel cuore del popolo come un simbolo di democrazia e progresso, tanto che all’indomani della morte gruppi di persone, soprattutto studenti, iniziarono a raccogliersi in piazza Tiananmen per esprimere il proprio dolore e la propria preoccupazione per il futuro della nazione, esattamente come era successo tredici anni prima, in occasione della scomparsa dell’amato primo ministro Zhou Enlai.

Tra la moltitudine di gente che in quei primi giorni si incontrava sulla piazza per discutere di politica, non vi erano solamente studenti, ma anche comuni cittadini e diversi lavoratori. In base a testimonianze dell’epoca, risulta che ogni sera vi fosse un gruppo di almeno una decina di lavoratori che si riuniva ai piedi del monumento agli eroi della rivoluzione per discutere della situazione e decidere cosa fare. A partire dal 18 aprile, dopo che gli studenti avevano iniziato a marciare per le strade, i lavoratori cominciarono a discutere sull’opportunità di stabilire di una propria organizzazione e decisero di verificare la disponibilità dei colleghi nell’ambito dei rispettivi posti di lavoro. Anche se già a partire dal 20 aprile vi sono documenti firmati, pur con denominazioni differenti, da quella che poi sarebbe diventata famosa in tutto il mondo come Federazione Autonoma dei Lavoratori di Pechino (gongzilian), questa nuova organizzazione sindacale indipendente si limità a giocare un ruolo secondario nelle prime fasi del movimento per la democrazia, almeno fino al momento in cui il Partito non scelse apertamente l’opzione militare.

Vi sono differenti versioni riguardo alla nascita ufficiale del sindacato autonomo di Pechino: mentre Walder e Gong, autori di uno studio pubblicato nei primi anni Novanta, la fanno risalire al 13 maggio, quando gli studenti che stavano conducendo lo sciopero della fame marciarono sulla piazza e la occuparono in maniera permanente, Han Dongfang, portavoce e leader della Federazione autonoma, ora più noto come fondatore del China Labour Bulletin di Hong Kong, la riconduce alla sera del 19 maggio, successivamente alla dichiarazione della legge marziale da parte dell’allora primo ministro Li Peng. In ogni caso, individuare la data precisa della creazione della struttura formale della Federazione Autonoma dei Lavoratori di Pechino ha un’importanza del tutto relativa, mentre è interessante capire quale fosse il ruolo dei lavoratori all’interno del panorama generale del movimento per la democrazia, quali fossero i loro obiettivi, quale il loro rapporto con la componente studentesca.

Sin dall’inizio i lavoratori si scontrarono con l’ostilità degli studenti. Quando i leader della Federazione Autonoma decisero di creare un proprio quartier generale sulla piazza, essi furono costretti dagli studenti, che volevano mantenere la “purezza” del proprio movimento, ad erigere le proprie tende al di fuori del perimetro della piazza, a nord-ovest lungo il viale Chang’an, un luogo estremamente pericoloso considerata la massiccia presenza di poliziotti in borghese. Nei giorni successivi, in almeno due occasioni (il 20 e il 28 maggio) la leadership studentesca si oppose decisamente alla proposta di uno sciopero generale avanzata dai lavoratori, reclamando un presunto “diritto di proprietà” sul movimento per la democrazia, salvo poi arrivare il 3 giugno, in vista dell’imminente azione militare, a supplicare i lavoratori di scioperare.

Studenti e lavoratori avevano differenti aspettative nei confronti del movimento per la democrazia: mentre i primi si concentravano sulla lotta per il potere all’interno del PCC e concentravano i propri sforzi sul rafforzamento dell’ala moderata e riformista del Partito, i secondi mostravano un disgusto generale per la politica ed un’estrema riluttanza ad essere coinvolti in giochi di potere, concentrandosi piuttosto su richieste di natura economica o materiale, quali la stabilizzazione dei prezzi, la lotta all’inflazione e alla corruzione, l’abolizione del pagamento del salario in buoni del tesoro, la libertà di cambiare lavoro, la fine della discriminazione verso le donne, etc.

Dopo la proclamazione della legge marziale, mentre il numero di studenti presenti sulla piazza continuava a calare, quello dei lavoratori continuava a crescere a vista d’occhio. Eppure, nonostante ciò non vi sono certezze riguardo al numero dei membri e affiliati della Federazione Autonoma: da un lato vi sono stime esagerate, come quelle fornite dall’International Confederation of Free Trade Unions (ICFTU) nella sua successiva denuncia alla Commissione per la libertà di associazione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL), che volevano che le Federazione avesse ramificazioni in 40 settori industriali e rappresentasse centomila lavoratori a Pechino, dall’altro quelle fornite da Walder e Gong che stimano in 150 il numero di attivisti impegnati continuativamente nella piazza all’apice dell’attività e in 20.000 il numero di membri registrati il 3 giugno.

In evidente contrasto con quanto emerge da queste cifre, molti anni dopo, Han Dongfang avrebbe rilasciato un’intervista alla New Left Review americana in cui, richiamando i dubbi che aveva avuto all’epoca della sua latitanza subito dopo il 4 giugno, avrebbe candidamente affermato: “[Dopo il 4 giugno] presi la bicicletta e andai fuori Pechino, nella provincia dello Hebei. Il mio piano – come ogni altra cosa che feci era infantile, considerando che allora avevo 25 anni – era di scomparire per un anno o due, viaggiando verso sud in bicicletta, parlando con i contadini ed i lavoratori ovunque fossi andato. […] Avrei studiato cosa stava succedendo nella società, sarei arrivato a conoscere la vita delle persone nelle fabbriche e nei villaggi, e così sarei stato meglio equipaggiato per presentare una sfida reale al Partito Comunista. Perché mi sentivo in imbarazzo ad essere il portavoce di un’organizzazione dei lavoratori che i lavoratori stessi non riconoscevano. Era un incubo per me quando i giornalisti mi chiedevano nella Piazza, ‘Quanti affiliati avete? Quanti membri avete?’. Sapevo che quando ci avvicinavamo ai lavoratori nelle manifestazioni di massa, essi negavano che noi fossimo una qualsiasi organizzazione in grado di rappresentarli. Nessuno ci aveva seguito, nessuno ci aveva supportato”.

Anche se non è semplice dire quale fosse il grado di supporto sul quale i sindacati autonomi sorti nella primavera del 1989 potevano contare tra i lavoratori cinesi, è evidente il fatto che la massiccia presenza di lavoratori tra i manifestanti non poteva non preoccupare la Federazione Nazionale dei Sindacati Cinesi (FNSC), allora come oggi l’unico sindacato ufficialmente riconosciuto nella Repubblica Popolare Cinese. I lavoratori, come si è visto, pur mantenendo una profilo più basso e una posizione più defilata avevano iniziato a mobilitarsi sin dalla metà del mese di aprile, esattamente come gli studenti. Quando il 26 aprile il Quotidiano del Popolo redasse un duro editoriale intitolato “È necessario opporsi chiaramente in maniera esemplare ai disordini”, nel quale il movimento degli studenti veniva equiparato ad un complotto mirato ad abbattere il governo del PCC e l’intero sistema socialista, i lavoratori dimostrarono per la prima volta il loro esplicito appoggio agli studenti e il 27 aprile applaudirono insieme ai comuni cittadini una loro grande manifestazione sul viale Chang’an di fronte a Tiananmen.

Fu solamente verso la metà di maggio che tuttavia le cose cominciarono ad andare fuori controllo. All’inizio di maggio il comitato di Partito della Municipalità di Pechino emise una direttiva in cui si intimava ai manager di tutte le fabbriche di fare il possibile per tagliare ogni eventuale contatto tra i lavoratori e gli studenti, mentre il 13 maggio il segretario generale Zhao Ziyang e il primo ministro Li Peng incontrarono in due differenti occasioni i rappresentanti dei lavoratori nel tentativo di pacificarli. Essi non ebbero troppo successo a giudicare dal fatto che appena una settimana dopo il China Daily pubblicava in prima pagina un articolo in cui venivano descritti i danni provocati alla produzione dalla massiccia defezione dei lavoratori nella capitale. Quando il 17 e 18 maggio si tennero due oceaniche manifestazioni in supporto agli studenti impegnati nello sciopero della fame, i lavoratori costituivano ormai la maggioranza della folla, insieme a giornalisti, studenti di scuola superiore, impiegati negli uffici governativi, impiegati in banca, così come ufficiali della Esercito di Liberazione Popolare.

Fu proprio allora che la FNSC iniziò a giocare un ruolo attivo in supporto ai manifestanti. Il 14 maggio una delegazione del sindacato marciò in piazza a sostegno degli studenti, mentre il 16 maggio 400 studenti dell’Istituto sul Movimento dei Lavoratori (un’istituzione affiliata alla FNSC) marciarono fino alla sede del sindacato e consegnarono al primo segretario e vice-presidente del comitato permanente della FNSC Zhu Houze una petizione firmata da 505 persone, in cui si chiedeva al sindacato “come rappresentante dei lavoratori e degli impiegati” di richiedere all’Assemblea Nazionale Popolare, al Consiglio degli Affari di Stato e al Comitato Centrale del PCC il riconoscimento della natura patriottica del movimento degli studenti, la tutela della libertà di stampa, pubblicazione ed associazione, la lotta contro la corruzione, l’adozione di una legislazione sul sindacato e il riconoscimento del fatto che il sindacato doveva parlare ed agire a nome dei lavoratori.

Il 17 maggio parte dello staff della FNSC e molti studenti dello stesso Istituto presero parte alle dimostrazioni, mentre una decina di migliaia di lavoratori della fabbrica di cavi elettrici di Pechino presentò alla FNSC una petizione in cui si richiedeva che il sindacato ufficiale si rivolgesse al governo ed al Partito a nome della classe operaia dell’intero paese per richiedere l’apertura di un vero dialogo con gli studenti e la garanzia che non si sarebbe cercato di regolare i conti con questi ultimi a posteriori, due proposte accolte con favore dal vice-presidente del sindacato Wang Houde. Il 18 maggio la FNSC fece una donazione di 100.000 yuan alla croce rossa di Pechino per aiutare gli studenti impegnati nello sciopero della fame, un gesto che fu molto applaudito dai manifestanti. Lo stesso giorno i vertici del sindacato diffusero una dichiarazione in cui venivano avanzate tre richieste fondamentali per il governo, vale a dire l’inizio di un dialogo reale con gli studenti, l’apertura anticipata di una nuova sessione del Comitato permanente dell’Assemblea Nazionale Popolare e l’avvio di un dialogo diretto con i lavoratori sotto l’egida della FNSC, mentre si esprimeva solidarietà e preoccupazione per la salute degli studenti impegnati nello sciopero della fame e si difendeva la consapevolezza dei lavoratori riguardo alla inevitabilità della stabilità sociale ai fini del successo delle riforme. Infine, ma questa è una notizia tutt’altro che sicura, in quanto riportata solamente dallo specialista Wang Shaoguang, il quale la attribuisce ad “una fonte molto attendibile”, sembra che la FNSC avesse deciso di proclamare uno sciopero generale per il 20 maggio. Sarebbe stata proprio questa la molla che avrebbe spinto Li Peng a proclamare la legge marziale la notte del 19 maggio dopo settimane di esitazioni.

Dopo la proclamazione della legge marziale, la situazione si fece più tesa e gli appelli per mantenere l’ordine pubblico più pressanti. Il 2 giugno il presidente del sindacato Ni Zhifu tenne un discorso ad una conferenza dei presidenti dei sindacati di settore in cui sosteneva la necessità di ripristinare l’ordine, ribadiva l’importanza della guida del Partito Comunista sul sindacato ed attaccava duramente i sindacati autonomi. Il 12 giugno, ben dopo che la repressione aveva avuto inizio, il sindacato diffuse una lettera destinata ai lavoratori ed ai quadri sindacali di tutta la nazione, ampiamente riportata sulla stampa, in cui venivano enfatizzati quattro punti: “rispondere con decisione all’annuncio del Comitato Centrale sull’opporsi con convinzione ai disordini”, “portare alla luce e combattere con decisione i complotti in cui pochissime persone scatenano degli scioperi”, “lottare con decisione contro le organizzazioni illegali come i cosiddetti ‘sindacati autonomi’”, “eliminare i vari disturbi, rimanere sul posto di lavoro, mantenere la produzione e garantire l’offerta”.

Allo stato attuale della ricerca, questo è tutto ciò che si sa sul ruolo giocato dal sindacato nella Primavera del 1989. A causa della cortina di silenzio calata sull’incidente Tiananmen negli anni Novanta, ad oggi non si ha assolutamente idea di quale possa essere stato il livello di supporto fornito dalla nomenclatura della FSC al movimento. Una testimonianza individuale, con un valore limitato dal punto di vista della ricerca storica ma un grande significato umano, è quella di un quadro della FSC fuggito all’estero dopo il 4 giugno, riportata in un volume stampato a Hong Kong negli anni Novanta: egli raccontava come più della metà degli impiegati nel suo ufficio appoggiasse il movimento e come gli attivisti andassero per le strade ed in piazza a fare discorsi, distribuire volantini, innalzare slogan e mandare scritti alla Federazione Autonoma di Pechino perché li trasmettesse alla radio.

Dopo il 4 giugno l’ondata di repressione colpì in maniera sproporzionata i lavoratori e, marginalmente, anche il sindacato. Nonostante Anita Chan abbia sostenuto che la FNSC in virtù della posizione di intermediario assunta nel corso dei disordini sia stata in grado di rafforzare la propria posizione ed abbia ottenuto dalla nuova fazione politica al potere il permesso di continuare ad espandere il proprio potere burocratico anche nel periodo successivo alla crisi, è innegabile come il processo di riforma del sindacato cinese all’indomani della tragedia abbia subito una battuta d’arresto.

2 commenti:

  1. Caro Ivan, anzitutto complimenti ancora per i tuoi ottimi post, che trovo sempre molto interessanti e stimolanti (benché io sia un profano nella materia). Una domanda mi fa sorgere spontaneamente il tuo intervento: nel piccolo cappello introduttivo sostieni che nelle situazioni di crisi economica e politica il sindacato cinese ufficiale tende ad "agitarsi" e a reclamare un ruolo di maggior rilievo nella rappresentanza dei lavoratori. Risulta ciò essere vero anche nella odierna crisi? Se si, quali potrebbero essere gli effetti sul sistema politico cinese attuale? Ti ringrazio in anticipo per le eventuali risposte :-)

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  2. Caro Ermete, grazie mille per questa interessantissima domanda. Nella storia cinese più recente sono stati almeno quattro i momenti chiave in cui i rapporti tra sindacato e Partito sono entrati in crisi: il primo è stato il 1951, nel periodo di assestamento immediatamente successivo alla fondazione della RPC; il secondo nel 1956, durante la Campagna dei Cento Fiori; il terzo nel 1966, con lo scoppio della Rivoluzione Culturale; l'ultimo, per ora, è stato il 1989. Per il momento non ci sono segnali che lascino intravvedere una nuova imminente crisi nei rapporti tra Partito e Sindacato. Anche se, come ho già avuto modo di scrivere su questo blog, l'attuale crisi finanziaria sta colpendo duramente i lavoratori cinesi, questo finora non ha portato ad alcuna presa di posizione dura da parte della FNSC. Il punto è che questa crisi, per quanto preoccupante, è nata dall'estero e quindi non ha messo in crisi la credibilità del Partito agli occhi dei cinesi, tutt'altro. La disoccupazione e tutti quagli altri fenomeni che la crisi non ha fatto altro che accentuare sono stati comodamente presentati come una conseguenza di decisioni prese all'estero, mentre il Partito è riuscito a vendersi alle masse come il "pompiere" della situazione. E' anche vero il fatto che il dibattito interno al sindacato (come quello all'interno del Partito) rimane imperscrutabile agli occhi degli osservatori esterni. Mi piace tuttavia immaginare che oggi come vent'anni fa all'interno del sindacato ci sia una forte componente riformista, che lotta dall'interno per cambiare lentamente le cose.

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